Una storia fotografata, con uno sguardo d’artista

Un’immagine simbolica, diventata copertina del libro ManiAGO – Storie fatte a mano, con foto di Ruggero Lorenzi e testi di Romeo Pignat.
Foto di Ruggero Lorenzi
Ruggero Lorenzi è tra i fotografi che più in questi anni hanno accompagnato l’evoluzione della coltelleria di Maniago: in oltre quattro decenni di scatti ha fissato cambiamenti, estinzioni, “resurrezioni.”
Ha visto scomparire le vecchie officine con i vetri imbiancati o zigrinati per occultare i segreti del mestiere, e affiorare da secoli di tradizione le nuove lavorazioni 4.0, che stanno rivoluzionando il settore con tecnologie sempre più sofisticate. Ha raccontato con lo sguardo l’evoluzione dalle “belle forme” artigianali concepite in casa, alle linee più ardite del design, ispirate da idee che circolano nel vasto mondo. Ha conosciuto famiglie e generazioni di questa terra concreta e creativa. Ha colto sentimenti, sfumature, emozioni e, da buon fotografo, soprattutto luci e ombre di una storia che continua ad appassionarlo.
Sono nato a Claut, nella Valcellina, dove ho trascorso la mia infanzia. Sono uscito per la prima volta dal “cerchio” aspro e insieme protettivo delle mie montagne nel 1961, all’età di undici anni, per un breve viaggio a Pordenone, dove mi sarei presto stabilito per frequentare la scuola media.
Posso dirlo con sincerità: la mia terra, con la sua natura severa ma insieme libera, ha forgiato la mia anima e alimentato la mia immaginazione.
Dopo un diploma come perito chimico e studi filosofico-letterari, ho cominciato a dedicarmi alla fotografia, esordendo nel 1976 con un libro sul terremoto del Friuli, che ha richiamato l’attenzione della stampa nazionale.
Mi sono trasferito a Maniago nell’ormai lontano 1980. Allora conoscevo bene la realtà della lavorazione del legno praticata nella mia Valcellina. Mi stavo anche facendo le ossa come fotografo e avevo appreso i primi rudimenti della pubblicità, in un anno trascorso a Torino presso un parente titolare dello studio Esculapio. Ma sapevo poco o niente del mondo artigiano dei Fabbri.

Foto di Ruggero Lorenzi
Maniago era per me un paese nuovo, anche se solo a due passi dalle montagne di Claut.
Dopo un primo periodo di ambientamento, con l’attività di fotografo matrimonialista, cominciai a scoprire piano piano un universo più ampio di lavoro e di opportunità: le coltellerie.
Erano anni d’intenso fervore, in cui s’immaginava il futuro. M’incuriosivano e mi affascinavano vecchi cataloghi di coltelli ancora dipinti a mano. Mi appassionava l’idea d’esplorare quel mondo fabbrile che, a Maniago, si respirava dentro e fuori le officine.
Tutti ne parlavano, orgogliosi: dipendenti e imprenditori.
Tutti si sentivano protagonisti di qualcosa d’importante.
Quella voce diffusa ispirò la mia scelta di dedicarmi con passione alla fotografia industriale.
Arrivando da fuori, avevo captato un bisogno: restituire, attraverso la comunicazione, quel patrimonio di conoscenza e di umanità che mi aveva colpito entrando nelle fabbriche.
La prima e più grande emozione me l’ha regalata il colore. Quel colore “grigio-ruggine” degli oggetti appesi ai muri, intriso nei cassetti a ridosso delle pareti e quasi fuso con l’odore della limatura di ferro. E poi le luci, certe luci di taglio che entravano dalle finestre come lampi di fulmine. E ancora le mani sporche di olio degli artigiani che, con abilità sempre sorprendente, modellavano ferri, acciai, legni grezzi, fino a farli diventare oggetti magnifici, utili per il lavoro di altri uomini.

Foto di Ruggero Lorenzi
Maturò così, accanto alla professione, il desiderio intenso di cogliere le atmosfere e i vissuti delle officine che stavo frequentando. Dietro il lavoro e il manufatto percepivo celarsi un sentimento, una misteriosa energia creatrice che muoveva le mani come l’acqua del Colvera muoveva i magli.
Una vita professionale dedicata alla fotografia porta così a essere profeti inconsapevoli di mondi in metamorfosi, di organismi complessi dove alcune parti mutano e altre vanno ad estinguersi. Guardando con gli occhi e con la mente, ho imparato che la scomparsa di certi luoghi annulla anche azioni compiute e sentimenti vissuti dentro quei luoghi, modi d’essere che non possono prescindere dalle pareti e dagli attrezzi, dai rumori e dagli odori, dalle luci e dalle ombre. L’anima dell’uomo vive e si modifica nell’abbraccio delle cose in divenire – o in disfacimento – che lo circondano. E la fotografia cerca di cogliere o di dare un significato a questo movimento: quanto diversi sono i volti dei giovani di oggi concentrati davanti a un monitor, da quelli d’ieri intenti nel lavoro alla mola?
Nel mio “mestiere” dedicato alle coltellerie, e nella ricerca artistica che lo ha accompagnato, ho sperimentato tanti linguaggi e percorso tante strade. Ho esplorato quei “santuari del lavoro”, insieme sacri e dimenticati, che sono state le vecchie officine di “una volta”, tante fotografate e molte di queste scomparse da anni. Ho inseguito il colore caldo di riverberi perduti, quasi impossibile in un’azienda contemporanea. Un colore a volte più antico e più vero del bianco e nero. Meno astratto, meno assoluto. Quasi di magiche polveri ossidate, deposte dal tempo.

Foto di Ruggero Lorenzi
Attraverso “monumentali” ritratti di gruppo in bianco e nero, ho “immortalato” tante famiglie che hanno fatto le imprese, cercando soprattutto di cogliere quell’orgoglio e quello spirito invisibile di coesione – tra padri e figli, tra generazioni, tra soci, tra titolari e dipendenti – che sono l’essenza interiore di questa comunità di lavoro. Il compito del fotografo è andare oltre la semplice visione, catturare segrete energie, restituire la percezione dell’anima della realtà, attribuire all’immagine un significato più profondo e personalmente rielaborato. Quello che conta è sempre il modo di guardare, la scelta fatta attraverso colore, luce, inquadratura, espressioni. E “scelta” in greco si dice “airesis”, “eresia”. Lo sguardo di un fotografo, e più generalmente di un artista è, dunque, uno sguardo costituzionalmente eretico.

Foto di Ruggero Lorenzi
Progredendo attraverso quasi mezzo secolo di cambiamenti, ho anche dovuto affrontare quella velocità che combatte con la ponderazione. Quella velocità digitale del fare che ha annientato pellicole e fotoliti, ha reso obsoleti tempi e metodi. Ed è anche diventata velocità del mondo da rappresentare. I lampi metallici, le vertiginose danze tecnologiche del laser e delle automazioni, che accendono di colori e di riverberi nuovi fabbriche nel frattempo trasformate, quel fremente “blue machining” che ha sostituito ferme pareti ossidate.
In questo flusso di cambiamenti, ai quali abbiamo dovuto adattarci, non è mai venuta meno la passione, quasi assoluta, per i manufatti e per i gesti che accompagnano la loro genesi. Amo profondamente le “cose fatte a mano”. Amo, in particolare, i coltelli di Maniago. Sono spesso gioielli partoriti da idee geniali, che racchiudono tecnologie all’avanguardia, che definiscono forme perfette. Esplorandoli con lo sguardo e indagandoli con la luce durante le pose per gli still life, continuano ad emozionarmi come piccoli vibranti universi, dove vivono in simbiosi materiali antichi e innovativi, che parlano del sempre e del domani.

Foto di Ruggero Lorenzi
Ma continuo ad amare anche gli oggetti più umili, magari utensili “anziani” che sopravvivono nel silenzio recluso di certi reparti, diventati quasi anonimi ed emarginati dalla modernità. La fotografia, in fondo, aspira a nobilitare la loro essenza archetipica. Come scrive Tadeusz Kantor, “più un oggetto è di ‘rango inferiore’, più ha delle possibilità di rivelare la sua oggettività, e il suo elevarsi al di sopra del disprezzo e del ridicolo costituisce, in arte, un atto di pura poesia.”
E mi ostino a inseguire – quasi in un’aspirazione di sincronia, di respiro all’unisono – quell’artigianalità che è perfetta identificazione tra soggetto e oggetto, atto inesplicabile che decreta l’Eccellenza del prodotto, la sua intima e segreta coerenza, la sua marchiatura segreta: e qui a Maniago continua ancora a essere l’imprimatur quasi genetico di un luogo speciale, con i suoi secoli di storia.
In un mondo che cambia e a fronte di nuovi processi industriali, cosa sostituirà questi gesti?
La domanda è d’obbligo. Anche per chi scatta fotografie.
“La questione non è ciò che osservate, ma ciò che vedete”.
Henry David Thoreau
Per ogni fotografo, prima di ogni altra cosa, vale dunque una regola fondamentale: vedi quando guardi. Solo dopo vanno apprese le tecniche del linguaggio visivo per esprimerlo. Per questo ho deciso di aprire un blog, con l’obiettivo di orientare i fotoamatori a imparare a scegliere cosa e come guardare: cioè a essere eretici.
Mi trovate a https://fotografiaeretica.it/