Il gallo della Galvani, che ha subito varie trasformazioni e adattamenti nel corso della storia della manifattura pordenonese, diventandone di fatto il marchio di fabbrica e, come si direbbe oggi, contribuendo alla creazione di un vero e proprio brand.
Foto Rifutura / fonte www.ebay.it

In ricordo di Danilo e Silvana, miei genitori e ceramisti

Il Concorso di design ceramico “Gorizia senza confini” ha stimolato affascinanti collegamenti: quelli creati dall’iniziativa in sé, e quelli venuti alla luce strada facendo, come la straordinaria vicenda degli  artisti tedeschi-ebrei di Vietri, che qui  si rifugiarono dalle persecuzioni naziste, innovando profondamente la tradizione ceramica locale. 

Nel rincorrere queste remote connessioni, stavo tuttavia trascurando quella che mi lega in modo più profondo e personale a questo mondo. Sono nato e cresciuto nella città dove è fiorita l’industria ceramica più importante del Friuli Venezia Giulia, che ha dato lavoro ai miei genitori in gioventù, diventando oggetto di tanti racconti di vita vissuta che hanno arricchito la mia infanzia. Mi riferisco alla Ceramica Galvani, fino a qualche decennio fa motivo di orgoglio per tanti Pordenonesi, e i cui fabbricati lungo via Mazzini erano parte pittoresca e integrante del paesaggio urbano appena fuori delle mura, prima di essere demoliti negli anni Settanta e soppiantati dal mal digerito quartiere direzionale del “Bronx” progettato dall’architetto Gino Valle. 

Via Mazzini negli anni Trenta, con il lungo porticato della Ceramica Galvani, dove alloggiavano i negozi per la vendita al dettaglio dei manufatti prodotti dall’adiacente fabbrica. Pordenone, allora, era una vera e propria company town.
Archivio fotografico Gino Argentin
Una straordinaria foto di piazza Cavour, a Pordenone, negli anni Quaranta, con la prospettiva di via Mazzini verso la Stazione ferroviaria. Sulla sinistra la ciminiera fumante della Ceramica Galvani, che lambisce il centro della piccola città, la cui vivacità commerciale convive con quella industriale.
Archivio fotografico Gino Argentin

Come si evince dall’interessante articolo “I creps, la fragile storia delle terraglie friulane” di Isabella Reale e Vincenzo Sogaro, pubblicato nel 2016 nella rivista Tiere furlane, la ceramica in Friuli Venezia Giulia non vanta una vera e propria tradizione come in altre parti d’Italia, ed è perlopiù legata alla lavorazione della terraglia. Questo prodotto si ricava da un impasto di argille bianche, sabbie quarzifere e calcare, dalle nostre parti provenienti da varie località del Veneto, del Medio e dell’Alto Friuli. Il continuo perfezionamento di questa tecnologia portò, negli anni, a ottenere una pasta sempre più chiara e quindi vicina alla più nobile porcellana: la terraglia bianca Queen’s Ware, “a uso d’Inghilterra”, ottenuta con un soddisfacente rapporto qualità-prezzo e apprezzata durante la Rivoluzione industriale da una classe borghese in espansione. A cogliere nel nord-est d’Italia le tendenze del mercato fu un geniale dipendente della ceramica Antonibon di Nove, tal Pietro Lorenzi, che nel 1776 acquistò la fabbrica fondata solo tre anni prima da Giacomo Balletti nella zona dei Santi Martiri a Trieste. Nasceva di fatto la prima manifattura di terraglie in Italia Settentrionale, che poteva beneficiare dei privilegi fiscali offerti dal Porto Franco per l’esportazione in tutto l’Impero Austro-Ungarico, dedicandosi alla produzione di oggetti à la page connotati da un “bianco neoclassico”.

Coppa ceramica Galvani degli anni Trenta, con il decoro floreale “alla rosa” della tradizione veneto-friulana che decretò il successo locale della manifattura.
Foto Serafit2015 / fonte www.ebay.it

La fabbrica di terraglie di Trieste non fu la sola a nascere in quegli anni nel territorio della nostra attuale Regione. Seguirono a ruota quella di Santini e Sinibaldi, sempre a Trieste; quelle di Pietro Brautz e Marco Foglietti a Salcano; quella aperta da Giuseppe Prisani a Udine nel 1814; e soprattutto la Manifattura Pertoldeo di “cristalline” inaugurata a Rivignano nel 1844, che arrivò a occupare una quarantina di persone. Niente, tuttavia, di paragonabile al fenomeno che sarebbe esploso in quello stesso periodo a Pordenone, con la fondazione nel 1811 di una fabbrica di ceramiche da parte di Giuseppe Carlo Galvani, membro di una famiglia d’illuminati imprenditori che già nel XVIII secolo a Cordenons avevano avviato una cartiera, destinata a diventare la maggior produttrice di carta in area veneta. Dal 1823 la Ceramica Galvani cominciò a sfornare terraglie, favorita, come scritto nell’articolo sopra citato, “dal protezionismo del governo austriaco che proibisce, dal 31 dicembre 1824, l’importazione nel Lombardo-Veneto di ‘terraglia e maiolica’ con l’obiettivo di sottrarre le fornaci venete alla crisi provocata dall’invasione di terraglie di qualità a basso costo, soprattutto inglesi e pesaresi.”

Sotto la guida di Andrea Galvani dal 1836, prese forma una vera e propria organizzazione industriale. Si introdussero progressivamente metodi per la riproduzione seriale, come la decorazione “a stampa” o “a trasporto”, che permise la realizzazione di piatti con soggetti monocromi in stile inglese, con paesaggi, scene di vita, cineserie. Questi manufatti furono accolti con successo in Italia e all’estero, specie nelle grandi città d’Oriente come Alessandria d’Egitto, per altro meta professionale di molti giuliani durante i lavori di costruzione del Canale di Suez.

Si brevettarono tecniche quali la matita refrattaria, che si fissa alla terraglia con la cottura, consentendo di creare raffinate rappresentazioni artistiche. Si consolidò la produzione di piatti e vasi con il caratteristico decoro floreale “alla rosa”, dalle pennellate ampie e sgargianti, legato alla tradizione veneto-friulana, e che avrebbe dato popolarità locale alla Galvani, anche grazie al famoso marchio del “gallo andante”.

Già in quei primi decenni di crescita la Ceramica Galvani mise in luce quella flessibilità industriale che avrebbe favorito la sua longevità: una parabola lunga 160 anni, culminata agli inizi del Novecento, con 250 dipendenti nel 1902 e una produzione record di cinque milioni di pezzi nel 1909. Non solo piatti, vasi, oggetti in terracotta e terraglia per l’uso domestico, ma anche targhe per la denominazione delle vie, i numeri civici o per uso cimiteriale… La manifattura dimostrò in quel periodo un’eccezionale capacità di adattamento a differenti mercati e destinatari, nel vicino Friuli e nel lontano mondo, arrivando a competere con realtà italiane blasonate come la Richard Ginori o la Società Ceramica di Laveno.

Un piatto della serie Ferrara realizzato dalla Ceramica Andrea Galvani ai primi del Novecento, con la decorazione seriale a stampa, che consentiva all’azienda di lavorare su scala industriale, proponendo soggetti di moda.
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Nella sua straordinaria unicità, quella della Ceramica Galvani più che la storia di una tradizione è quella di una lunga stagione di creatività industriale, maturata nel fertile humus di Pordenone, quasi company town nell’Ottocento con i suoi innovativi cotonifici, e destinata a diventare la capitale europea dell’elettrodomestico negli anni Sessanta del Novecento.

La capacità e la volontà d’invenzione continua accompagneranno la Ceramica Galvani anche nella sua iniziale fase di declino, a partire dal primo dopoguerra. L’industria pordenonese, alla ricerca di nuovi mercati e prendendo atto dell’evoluzione del gusto verso la modernità, saprà infatti rinnovarsi e rilanciarsi anche grazie all’apporto di artisti quali Gino Rossi, Leo Leoncini, Armando Pizzinato, Ruffo Giuntini e il grande Giacomo Balla, che firmò per la Galvani un servizio da tavola. Ma sarà soprattutto il giovane direttore artistico Angelo Simonetto (1906 – 1961) a imprimere negli anni Trenta una svolta di stile, con soluzioni decorative Art Déco e Novecento essenziali e dinamiche, talora ispirate al futurismo; con nuove geometrie squadrate; soprattutto con l’introduzione della decorazione ad aerografo, che consentirà di coniugare originale eleganza, precisione esecutiva ed efficienza produttiva.

La rivoluzione portata da Angelo Simonetto, una delle più alte pagine creative nella storia dell’azienda, sarà tuttavia il canto del cigno della Ceramica Galvani, che nel secondo dopoguerra non troverà più l’energia necessaria per proseguire lungo la strada dell’innovazione, orientandosi verso un’impersonale produzione di massa con decalcomanie e timbri, scarsamente premiata dal mercato.

Galvani, cista per toeletta di Angelo Simonetto della prima metà degli anni Trenta. Le soluzioni decorative Art Déco e Novecento portate dal giovane direttore artistico e realizzate con tecnica all’aerografo, contribuirono a “sprovincializzare” ed elevare il brand pordenonese.
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Nel 1969 l’azienda sposterà la sede dalla storica fabbrica ai margini del centro storico, a quella periferica di Villanova. Nel 1979 sarà ceduta alla Tognana Ceramiche, che nel 1983 chiuderà definitivamente lo stabilimento. Il marchio Galvani sopravviverà fino al 2000 come piccolo laboratorio ceramico: solo l’esile ombra di una grande storia pordenonese.

 

Scrivere queste righe con scarsa competenza storica e tecnica e senza uscire finora dalla sfera dei ricordi personali, è stato particolarmente arduo, ma ne sentivo la necessità. La Ceramica Galvani – come le (oggi residuali e incertamente globalizzate) Industrie Zanussi o come i gloriosi Cotonifici defunti della mia città – sono stati dinosauri industriali, che molti di noi hanno visto estinguersi o ipocritamente metamorfizzarsi in uno scorcio fugace delle nostre vite. Sono stati giganti – ora dissolti ora ridotti a iconici relitti aggrediti dalla giungla urbana – che hanno avuto un peso enorme nelle economie e nelle speranze di tanti. Sono stati pane quotidiano, riti e miti, oggi ammantati di cronologie, testimonianze, immaginazione.

La Ceramica Galvani ha dato lavoro a molti Pordenonesi, e a tanti di più ha regalato l’orgoglio di sentirsi parte di una Città viva, che aveva qualcosa di grande da dire e, soprattutto, da fare. 

La Ceramica Galvani è stata la fabbrica di mio padre e di mia madre, dove forse hanno avuto l’opportunità di frequentarsi quotidianamente e di conoscersi meglio, non sapendolo dire con precisione, né volendolo per discrezione.

Quante volte mia madre, da bambino, mi ha raccontato con riconoscenza la storia della pila di piatti scivolati di mano, proprio mentre passava da quelle parti el paron (il padrone) Giorgio Galvani, che continuò a procedere con signorile nonchalance, per non far pesare l’accaduto. Quante volte i miei mi hanno spiegato come i famosi manufatti a fiori di Galvani fossero dipinti in una sorta di catena di montaggio che coinvolgeva più decoratori, ognuno con le sue maschere, i suoi trucchi del mestiere e il proprio pezzo da fare: la magia del mettere insieme, come nella creazione di un mosaico.

Mio padre, poi, ha vissuto da protagonista l’evoluzione dell’industria ceramica: è passato dalla Galvani alla Ceramica Scala, fondata da Giulio Locatelli e specializzata nella produzione di sanitari. Licenziatosi da qui, con un gruppo di arditi soci amici ha contribuito alla nascita della ILCAS – Ceramica Sanitaria di Fiume Veneto, poi assorbita dal Gruppo Pozzi, destinato a diventare Pozzi Ginori. Già da tempo in pensione, ha infine assistito all’assorbimento della Ceramica Pozzi Ginori nella galassia multinazionale della finlandese Sanitec, fino alla sua completa polverizzazione, con il vecchio stabilimento produttivo che aveva dato lavoro fino a centosettanta persone, demolito e sostituito da un centro commerciale nuovo fiammante: tutto il percorso evolutivo dall’artigianato all’industria… all’era asettica dei servizi.

La ILCAS-Ceramica Sanitaria, destinata a diventare Pozzi Ginori, con il suo stabilimento periferico rappresenta significativamente il passaggio dal mondo artigianale a quello industriale, che caratterizzò l’economia pordenonese del secondo dopoguerra. Oggi, in epoca post-industriale, i capannoni della ILCAS sono stati demoliti e lo spazio occupato da un’area commerciale.
Archivio famiglia Pignat

Negli ultimi tempi, assistendo malinconicamente dall’esterno a questi passaggi e al crollo dell’industria dei sanitari ceramici – e al mancato decollo di altre realtà affini come l’industria dell’idromassaggio – mio padre non smetteva di rimuginare un dubbio: “Abbiamo completamente abbandonato un’attività unica e creativa, come la manifattura delle ceramiche artistiche, per buttarci a capofitto nelle produzioni di water e di lavabi, che erano evidentemente destinate a diventare alla portata di tutti. Dovevamo invece mantenere e dare valore alla nostra tradizione.”

Mio padre, intanto, già da anni si era riconciliato con la sua passione, si era messo il cuore in pace dedicandosi nella vita privata non solo alla pittura di silenziosi, intimistici acquerelli, ma anche alla decorazione di piatti in punta di pennello, privilegiando paesaggi del nostro territorio, colti con elegante tocco quasi inglese. 

Non so se parlare oggi di artigianato sia una grande illusione, una fallace perdita di tempo lungo il percorso che ci proietta negli orizzonti – o ci scaglia contro i muri – del futuro. Penso tuttavia che davanti a un mondo sempre più complesso, anche l’artigianato possa (ri)trovare una sua ragion d’essere, una sua fetta sottile di senso nella grande torta della complessità contemporanea e delle sue cocenti contraddizioni. Una realtà gloriosa, come la nostra Ceramica Galvani, ha avuto soprattutto il merito d’industrializzare la bellezza, plasmando anche la “povera” terraglia per creare prodotti fatti a mano accessibili a un ceto medio, che voleva dignitosamente coltivare un proprio ideale estetico. Recuperare, oggi, un certo tipo e una certa idea di artigianato, bello e possibile, contribuirebbe forse a superare il muro sempre più alto che separa volgari ricchezze inaudite e lussi sfrenati da miserie assolute affogate nella tristezza della plastica. Significherebbe ritrovare un senso democratico del bello, che diventa anche vero, buono e giusto.

In questi giorni di Ferragosto, terminati gli approvvigionamenti di bicchieri e palette di plastica per sorbire il caffè espresso, ho quasi distrattamente rispolverato delle vecchie tazzine gialle dimenticate nei recessi dell’ufficio. Ho apprezzato l’ergonomia dei manici, la stondata consistenza dei bordi, il mantenimento del calore, la dignità della presentazione supportata dai sottopiatti. Ho riflettuto su come il riuso sia in questo caso molto più saggio e lungimirante dell’imponderabile riciclo. E, nell’eventualità di una rottura, come sia sempre possibile porvi riparo seguendo la pratica giapponese del Kintsugi: la paziente ricomposizione dell’oggetto – magari senza amalgama d’oro – per ritrovare la sua unità. Un’unità screziata di quella fragilità umana che aumenta la memoria e il valore intrinseco delle cose, rendendole preziosamente uniche.

A conclusione di questo articolo, dedico alcune foto a mio padre, che negli anni Ottanta realizzò alcune serie di piatti in ceramica con paesaggi friulani e veneti, con decorazioni monocrome, curando tutte le fasi produttive: dalla preparazione dei “biscotti” (supporti sottoposti alla prima cottura), alla pittura artistica a mano, alla seconda cottura. Ho scelto una serie sulle ville venete con decorazioni monocrome blu: un colore intramontabile, che ha sempre rappresentato una sfida tecnica per i ceramisti. Con questo hobby mio padre si “riconciliò” con la sua vecchia passione di artigiano ceramista pordenonese, convertito negli anni Cinquanta-Sessanta alla “causa industriale”.