Da li mans di Carlin…
a un’indimenticabile gita a Postumia

Si ringraziano per la gentile collaborazione Carlo Beltrame, nipote e omonimo di Carlin, e Antonino Beltrame.
Solo una decina di chilometri separano Maniago dai paesi della Val Colvera: Frisanco, Poffabro, Casasola… Ma qui i cambiamenti sono repentini: basta una galleria per entrare in un altro mondo, per passare da una pianura pedemontana che scivola in falsopiano verso il Veneto e la sua parlata, a montagne prealpine aspre e verdissime dove batte un cuore ancora friulano.
Siamo saliti “quassù” – se duecento metri di dislivello bastano per scomodare l’avverbio – seguendo controcorrente il filo del Colvera, le cui acque incanalate nelle rogge hanno mosso per secoli le ruote dei mulini, per azionare i magli dei battiferro e le mole affilatrici: l’energia liquida che plasma la durezza del metallo. Anche tra questi monti, e non solo a Maniago, già da epoche remote dovevano saperne di certi mestieri, come ostina a ricordarci il nome “Poffabro”, menzionato in una sentenza del 1339 nella sua forma latina: “Pra Fabrorum”, “Prato dei fabbri”. Sul prato acquattato sotto le aspre crode del Rodolino e del Raut, sarebbe poi sorto quel borgo-presepe di case di arenaria e calcare, con aerei balconi di legno, corti interne, angusti passaggi che odorano di Medioevo, oggi annoverato tra i più belli d’Italia e insignito dal Touring Club della Bandiera Arancione. Per il momento lasciamolo in disparte, godendoci il panorama del suo groviglio di pietra e dirigendoci verso la nostra meta: Frisanco. Il capoluogo della Val Colvera è meno noto ma altrettanto suggestivo, disteso su un dolce pendio e con una trama più solare, che concede qualche piazzetta con l’immancabile fontana abbracciata da case di ambrata arenaria. Qui è accolto l’unico esempio di architettura gentilizia della Valle: Palazzo Theophilo-Pognici, del XVII secolo, intonacato, con un nobile camino, stemmi araldici, pavimenti in seminato veneziano.

Foto di Romeo Pignat
Siamo qui per capire qualcosa di più di quella sapiente manualità friulana che ha fatto la storia e la fortuna di Maniago e dei suoi dintorni. Ci attende Carlo Beltrame ad aprirci le porte di un’insolita Mostra permanente, Da li Mans di Carlin, che espone piccoli capolavori realizzati in una trentina d’anni dal nonno paterno, da cui ha ereditato con orgoglio nome e cognome. Si tratta soprattutto di riproduzioni in scala 1:10 di costruzioni tipiche della Valle: abitazioni, chiese, l’osteria, le botteghe artigiane, viste da fuori e all’interno, grazie a geniali spaccati, talora svelati ruotando interi piani su perni. Colpisce la minuzia dei particolari: dagli oggetti quotidiani ai meccanismi funzionanti del molino e del battiferro, che anche qui occupa un posto di rilievo, ricordando come il mestiere del fabbro abbia accompagnato la vita paesana.

Foto di Daniele Tibaldi
Il nome del Museo è un omaggio all’abilità del suo autore: Da li mans di Carlin, “dalle mani di Carlin”. “Mio nonno Carlo Beltrame”, ricorda il nipote, “aveva due grandi talenti: una manualità versatile, che derivava in parte dalla sua esperienza di carpentiere e gli consentiva di costruire o di riparare a regola d’arte qualsiasi cosa, con le tecniche e i materiali più disparati. E una memoria prodigiosa, grazie alla quale riusciva a fissare dettagliati ricordi del passato, ricostruendo nella sua mente anche ciò che nel frattempo era scomparso. Era poi affascinato dalle strutture degli edifici, dai meccanismi che muovono le macchine. Con insaziabile curiosità voleva sempre capire come le cose funzionassero o con quali giochi di forze le case si reggessero in piedi.”
Usando una parola di moda in questi tempi, potremmo dire che Carlo Beltrame (1912 – 2012) aveva un approccio “olistico”, una visione d’insieme nutrita di particolari, ma al tempo stesso orientata a restituire il senso complessivo di un luogo e di un’epoca, la Memoria materiale e spirituale di una Civiltà. Il Museo, come spiega il nipote Carlo, trasmette anzitutto un messaggio prezioso, in un periodo indecifrabile come quello presente segnato dall’interdipendenza tra sistemi economici lontani: “Oggi ci muoviamo in automobili costruite con pezzi che provengono da fabbriche sparse in tutto il mondo. Ci alimentiamo con le merci di supermercati che vendono pomodori olandesi e vino cileno. Una volta, fino al secondo dopoguerra, in queste montagne tutto era fatto in casa. Allora sì che valeva il concetto del “chilometro zero”. La distanza tra produttore e consumatore era nulla. Il contadino coltivava frumento e mais. Il mugnaio produceva la farina, con cui il fornaio a pochi metri di distanza preparava il pane. Quasi tutti i maschi sapevano tirar su i muri e, se fosse servito loro un attrezzo di ferro, c’era il fabbro a prepararglielo…”. Anzi, un “prato di fabbri”.

Foto di Daniele Tibaldi
Carlin, con la sua straordinaria ricostruzione, ci ha riavvicinato dunque a un mondo perduto e, in prospettiva odierna, al suo cambiamento. Non si è limitato alla tecnica didascalica. Ci ha restituito, con tocco poetico e incantata memoria da bambino, i fremiti, la patina, le atmosfere di quei tempi andati. Osservando dall’alto l’interno dell’osteria in miniatura, con le sue luci fioche, pare quasi che da un momento all’altro possa popolarsi di avventori. Fotografando la chiesa parrocchiale in scala 1:10 dalla porta d’ingresso, si prova l’illusione di trovarsi di fronte all’edificio reale e non ci si meraviglierebbe se, all’improvviso, entrasse nell’inquadratura un sacrestano lillipuziano. Ma la riproduzione, forse, che colpisce di più è quella della camera matrimoniale, con i copriletti, i pizzi, i boccali riproposti con minuziosa tenerezza. Chissà se dentro il comodino c’è qualche ricordo portato dal Castello di Sinaia? Là, infatti, Severina, moglie di Romano Beltrame e mamma di Carlin, era arrivata da bambina con la famiglia e aveva avuto l’opportunità di entrare in contatto con la piccola corte reale di Romania insediata in quella lontana cittadina dei Carpazi. Con il tempo aveva conquistato le simpatie della Regina, lavorando al suo servizio e ricevendo in cambio stima, l’opportunità di farsi una cultura e un’istruzione, che avrebbero formato la sua autorevole personalità, e in più qualche ricordo che avrebbe portato con sé al rientro in Val Colvera.
Verso quella località della Transilvania, alle porte di Sibiu, erano emigrati in tanti da Frisanco, per trovare impiego in un salumificio diretto dal compaesano Ferdinando Beltrame e fondato da altri compaesani, quei mitici fratelli Dozzi, da molti considerati con barba Nane da Budoia i norcini “inventori” del salame ungherese. È difficile, anche nel mondo in miniatura creato da li mans di Carlin, non trovare tracce e ombre di quell’emigrazione che ha visto tante partenze dalle nostre montagne: per necessità, come ricorda il poeta Leonardo Zanier con il suo “libers… di scugnî lâ”, “liberi… di dover partire”. O anche per spirito di avventura, come ci rammenta una storia straordinaria, spesso raccontata da Carlin.

Foto di Daniele Tibaldi
Una storia di sfortuna e di fortuna
(ricostruita con i ricordi di Antonino Beltrame)
Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, fra i tanti giovani della Val Colvera qualcuno non si rassegnava al tran-tran quotidiano, desiderava invece conoscere il mondo, alla ricerca di quelle fortune vagheggiate ascoltando i racconti degli emigrati…
Tra questi c’era il giovane Carlo (omonimo di Carlin) della famiglia di fabbri Beltrame – soprannominati “Gjenerai di Frisanc” – che nel corso dei decenni si erano ingegnati in altri mestieri come agricoltori, allevatori, casari, panettieri, osti, negozianti di alimentari… Con il frutto di un lavoro tenace, potevano così assicurarsi un dignitoso tenore di vita.
Tuttavia, il “figliol prodigo” Carlo, figlio di Pietro e fratello di Romano, si era messo in testa di andare all’estero e aveva chiesto e ottenuto dal padre (pur riluttante) un finanziamento.
Partì così verso quella “Mitteleuropa” dove lavoravano tanti compaesani. Portò con sé come bagaglio la sola speranza di fare fortuna, ma in questo primo tentativo il destino non fu dalla sua.
Decise allora di ritornare in patria, ma una volta giunto in Italia senza il becco di un quattrino fu sopraffatto dalla vergogna. Come avrebbe potuto presentarsi a casa e chiedere altri soldi?
Facendosi coraggio, Carlo pensò allora di contattare la moglie del fratello Romano, Severina, che godeva della stima del suocero Pietro. Con la mediazione diplomatica di Severina, riuscì a farsi spedire a Genova la somma necessaria per imbarcarsi in terza classe alla volta della Merica, in Argentina: il posto giusto al momento giusto.
Erano gli anni dello sviluppo e della crescita del Paese sudamericano. I suoi immensi spazi avevano bisogno di mani e di teste, di capacità organizzativa e di buona volontà.
Carlo Beltrame comprendeva in sé tutte queste doti e le mise fruttuosamente in cantiere, diventando presto un imprenditore capace di tagliare, squadrare e fornire al Governo argentino milioni e milioni di traversine necessarie alla costruzione delle ferrovie.
In quel tempo il Governo, impegnato finanziariamente su più fronti per la crescita del Paese, non riusciva a garantire tutto il pagamento delle prestazioni in moneta e saldava i fornitori circa per un 20% in Pesos e per il restante 80% con la cessione in proprietà e a “blocchi” d’immensi terreni agricoli con tutto quello che vi era compreso: bestiame bovino selvaggio, foreste, gauchos…
In pochi anni Carlo diventò così un latifondista, proprietario d’immense tenute; anche se al principio, pur avendo raggiunto una posizione di benestante, i terreni non si rivelarono un vero affare: si trattava infatti di sterminate aree dispersive, dove il bestiame vagava improduttivamente allo stato brado.
La buona sorte, tuttavia, non si fece attendere, sospinta da due “circostanze” epocali: anzitutto la nuova tecnica felicemente sperimentata per il congelamento delle carni, che quindi potevano essere conservate e consumate anche dopo anni. Subito dopo, lo scoppio della Prima guerra mondiale, con la richiesta di massicci approvvigionamenti per gli eserciti inglese, francese e italiano.
Vendendo così migliaia e migliaia di capi di bestiame in poco tempo, Carlo Beltrame, zio di Carlin, diventò un miliardario e, memore delle esperienze di famiglia, cominciò a differenziare le proprie attività commerciali.
La florida situazione economica gli permise di poter ritornare in patria in più occasioni. Durante un soggiorno, dopo la fine della Grande Guerra, ebbe modo di acquistare una vecchia casa gentilizia a Pordenone e una fantastica Isotta Fraschini come quella che fu di Gabriele D’Annunzio e oggi si può ammirare al Vittoriale degli Italiani di Gardone.
Durante le sue permanenze in Italia, Carlo organizzava spesso gite in auto in compagnia del fratello Romano e di altri parenti. Carlin, in particolare, rammentava spesso una gita con l’Isotta Fraschini alla volta di Postumia nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale.
A bordo, con l’autista, c’erano lo zio Carlo Beltrame e suo fratello Romano, con i figli Argo e il piccolo Carlin. Era il 1923, Postumia era appena passata al Regno d’Italia e probabilmente in quel giorno s’inaugurava il nuovo ingresso monumentale alle Grotte, fatto costruire da Luigi Bertarelli, che avrebbe dato impulso allo sviluppo turistico della località.
A Postumia – ora Postojna in Slovenia – la motorizzata famiglia Beltrame capitò in un grande spiazzo traboccante di folla. E qui fu accolta dalla banda che cominciò a suonare l’Inno Reale… Sì, perché quel giorno si aspettava un Ministro del Regno in visita ufficiale alle Grotte, e i presenti avevano scambiato l’Isotta Fraschini dei Beltrame con l’attesa auto ministeriale. Un comico momento di gloria di una giornata particolare e di una storia straordinaria.
Per visite e informazioni
https://www.ecomuseolisaganis.it/it/c/88/museo_da_li_mans_di_carlin.html