Dalla Cortina (non) di ferro goriziana alla Frontiera più aperta d’Europa: lo snodo strategico degli anni ’60 del ventesimo secolo
In copertina, una storica foto del 1967 della Kongresshalle di Berlino, dove il Sindaco di Gorizia, Michele Martina, tiene il suo discorso davanti ai duemila delegati degli Stati Generali d’Europa, portando l’esperienza di collaborazione tra Gorizia e Nova Gorica come “contributo all’avvicinamento” tra i Popoli d’Europa.
La pur fievole esperienza dei cattolici goriziani nella Resistenza, date le pesantissime condizioni nelle quali era stato messo il territorio confinario, ha consentito che il patrimonio umano, culturale, sociale e quindi anche politico d’ispirazione cristiana potesse non solo transitare integro attraverso le tragedie disumane e disumanizzanti dei e tra i due conflitti mondiali, ma risultare straordinariamente fecondo.
Negli ancor pochi esiti documentati (rispetto alla ricchezza della storia vissuta) dalla ricerca sulla singolarità di questo limitato tratto dell’attuale Confine di Stato tra Italia e Slovenia, quello che va dal Collio al Carso fino al mare tra Duino e Grado, seguendo il corso e il bacino dell’Isonzo, si trovano molti spunti che consentirebbero molti approfondimenti e conseguenti iniziative. Per estrema sintesi si può richiamare il semplice stampato che è stato diffuso dal Centro Studi “senatore Antonio Rizzatti” in occasione del sessantesimo anniversario dello storico Congresso Provinciale della Democrazia Cristiana del marzo 1954.
Stampato diffuso nel 2014 dal Centro Studi “senatore Antonio Rizzati”, a ricordo del Congresso Provinciale della Democrazia Cristiana di Gorizia nel marzo 1954
Sono in esso richiamati anzitutto i principali protagonisti di quell’evento, che ha innescato un processo che ha sorpassato di molto le stesse originarie intuizioni (meglio dire speranze se non utopie) di quel manipolo di giovani. Alla loro guida la lungimirante figura di Rolando Cian, il friulano di Ruda, attivo fiancheggiatore della Brigata Osoppo, scampato due volte all’eliminazione dopo la cattura prima da parte dei partigiani filo slavi comunisti e poi dei nazifascisti.
Si trovano esposte in sequenza temporale le principali tappe del percorso che dalla metà degli anni ‘40 alla fine dei ‘70 ha portato alla trasformazione del nuovo e innaturale confine da barriera tra Occidente e Oriente dell’Europa, a porta inizialmente socchiusa, poi sempre più aperta, prima fra le due comunità cittadine divise in due Stati diversi e per tanti aspetti ostili, poi, a passi graduali, ai rapporti tra l’Europa dell’Ovest e dell’Est in tutti i settori: culturali, sociali, economici. Un confine inizialmente segnato dal filo spinato ma privo di muri e tanto meno di cavalli di Frisia che invece marcavano con forza la Cortina di ferro in tutto il resto dell’Europa: nella lettura fatta negli anni dagli stessi protagonisti, era l’effetto della pur sofferta strategia di Alcide De Gasperi nel Trattato di Pace seguito alla sconfitta nella Guerra decisa dal nazifascismo, con la conseguente perdita di Fiume, Zara e di quasi tutta l’Istria.
Gli impliciti sviluppi derivati dal Trattato nei rapporti tra Italia e Jugoslavia e tra questa e il blocco sovietico, avranno poi seguito nel Trattato di Osimo che, di fatto, ha favorito l’adesione della Slovenia all’Unione Europea.
A fianco di De Gasperi a Parigi c’erano anche due goriziani: Angelo Culot e Silvano Baresi, cattolici ben attivi e presenti prima, durante e dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, tra i promotori e fondatori della Democrazia Cristiana, che in tempi e con posizioni istituzionali differenti, contribuirono in modo decisivo alla gestione della faticosa ricostruzione dell’identità e del ruolo del Goriziano nel nuovo assetto democratico del Paese.
La comunità locale era stata tragicamente divisa e doveva provare a riconciliarsi al proprio interno e soprattutto con la sua parte separata dal confine: per troppi questa era la divisione tra gli italiani di qua e gli slavi di là, i democratici divisi dai comunisti, i cattolici dagli atei.
Come risultato, si può grossolanamente ricordare che al momento della decisione irreversibile dopo il Trattato sullo stare di qua o di là, ci fu un transito di esuli nei due sensi lungo il confine che passava tra case, orti, stalle e cimiteri, nel rapporto di uno (verso la Jugoslavia) a dieci (verso l’Italia): in molti abbandonarono le case e quindi il lavoro, trovando sistemazioni di fortuna o presso parenti, amici, conoscenti.
Tra i primi la famiglia Štrukelj, i genitori e tre figli, nati nel centro storico di Gorizia alle pendici del Castello: il fratello maggiore Jožko diventerà Sindaco di Nova Gorica, la più giovane Milojka sarà tra i martiri dello sterminio di Cirkina; il padre, titolare di un’attività artigiana in braida Vaccana, sarà figura di primo piano nella feroce gestione dei partigiani titini nei quaranta giorni del maggio 1945.
Tra i secondi la famiglia Martina, papà originario di Salice Salentino, mamma del Carso sloveno, sei figli nati nella frazione orientale di Gorizia, San Pietro, adesso Šempeter pri Gorici, dall’altra parte del confine.
Michele Martina e Jožko Štrukeli si conoscevano fin da giovani; si sarebbero ritrovati quasi contemporaneamente Sindaci delle due parti della città diventate rispettivamente il Comune di Gorizia e quello di Nova Gorica, nata dalla costruzione di un nuovissimo complesso urbano realizzato in pochi anni nella piana lasciata libera da edifici, dove sorgeva una fabbrica di laterizi, accanto a un grande cimitero ormai sostituito da altri più a sud. Uno spazio per ventimila persone, in buona parte immigrati dalle Repubbliche jugoslave, che andavano a sommarsi ai residenti nella storica frazione di Salcano (l’origine millenaria di Gorizia) e di San Pietro, costituendo così un grande Comune Capoluogo con una popolazione di oltre ventimila abitanti.
Dall’altra parte del confine, Gorizia italiana contava su una popolazione di quasi quarantamila persone, anche grazie all’immigrazione di personale militare e delle diverse forze dell’Ordine, Guardia di Finanza, Dogana e presidi Ministeriali indispensabili alla sopravvivenza e allo sviluppo della città Capoluogo di una Provincia fortemente ridimensionata, che aveva perso il novanta per cento del suo originario territorio.
In questo contesto si mossero i primi passi per superare anche fisicamente un confine, senza filo spinato ma soggetto a sorveglianza spietata da parte jugoslava: sono nella memoria di tanti le raffiche di mitra accompagnate dai fasci delle fotoelettriche dalle torrette di sorveglianza, fino ai primi anni ‘60. La “Domenica delle scope” dell’agosto 1950, un imprevisto e incontrollabile sconfinamento di migliaia di persone dalla Jugoslavia all’Italia, aveva indicato un desiderio, ma solo dopo l’accordo del 1955 si sarebbe realmente potuto passare il confine.
È stato così possibile anche per i nostri giovani “padri fondatori” riprendere percorsi giovanili e per tanti aspetti famigliari, quindi riavviare amicizie e svilupparne nuove, confidandosi con molta attenzione anche i primi spiragli di possibili iniziative congiunte; è stata la rivista Iniziativa Isontina, fondata contestualmente al Centro Studi “Senatore Antonio Rizzatti”, a cavallo tra il ‘58 e il ’59, ad avviare rapporti documentabili con gli amici di Nova Gorica.
Collaborazione e buona volontà su un confine che non divide
Articolo del poeta Celso Macor, Iniziativa Isontina, Anno VI, N. 20, Gorizia, dicembre 1964
Il 1954 è stato l’anno dell’innesco del “fuoco” goriziano, il 1958 quello della sua fiammata: Rolando Cian aveva scelto la strada del sindacato ancora nel ‘54 andando a Salerno per aiutare Giulio Pastore nella formazione della classe dirigente della CISL. Michele Martina, che ne aveva preso il testimone, era stato candidato e poi eletto al Parlamento Italiano a soli trentadue anni, mentre i suoi compagni di strada assumevano ruoli rilevanti nella Democrazia Cristiana in ambito locale e nazionale.
Trailer del documentario Rolando Cian un sindacalista di frontiera, regia di Valeria Baldan
2014, Sine Sole Cinema, Mariano del Friuli
Pasquale De Simone, esule da Dignano d’Istria (come l’amico e coetaneo Corrado Belci) diventava direttore responsabile di Iniziativa Isontina, avendo al suo fianco Celso Macor quale capo redazione, Renato Tubaro presidente del Centro Studi “Senatore Antonio Rizzatti”.
Il quartetto aveva assunto la guida strategica del movimento che ormai aveva piantato radici solide in tutto l’Isontino, da Monfalcone a Grado, da Gradisca a Cormòns, coagulando attraverso incontri, proposte, iniziative riportate con grande efficacia dalla rivista Iniziativa Isontina nelle sua diffusione quadrimestrale, una sempre più ampia platea di persone e corpi sociali che ne apprezzavano la qualità di visione strategica.
Questo processo culminò verso la metà degli anni ‘60: nel giugno 1965 Martina venne eletto Sindaco di Gorizia, dall’anno prima l’amico ritrovato Jožko Štrukeli era Sindaco di Nova Gorica; insieme decisero, prima segretamente, poi ufficialmente, di organizzare lo storico incontro delle due Giunte Comunali al completo, nonostante le reciproche difficoltà per le imposte autorizzazioni superiori.
Il 17 novembre 1965, a pochi anni dal completamento del Muro di Berlino, i due sindaci non ancora quarantenni, uno ateo comunista e l’altro cattolico democristiano, sottoscrissero un verbale con il quale davano il via al percorso che avrebbe potuto portare (lo si legge dal verbale) alla riunificazione della città in Europa.
Nel verbale si nota un cenno non marginale all’incontro avvenuto a Belgrado tra Aldo Moro e il Maresciallo Tito, che aveva l’obiettivo di fare passi avanti tra i due Paesi guardando anche al futuro dell’Europa. Demetrio Volcic, in alcuni dei tanti colloqui confidenziali qui a Gorizia, a casa sua, ricordava quasi come un aneddoto che aveva fatto da interprete tra i due statisti, viaggiando anche in aereo con Moro, consolidando un rapporto duraturo di reciproca stima.
In quel contesto si decise anche, senza dichiararlo, che da parte dei cattolici goriziani che avevano dato vita a Iniziativa Isontina, si facesse un passo in avanti verso i Paesi dell’Est europeo per “bucare” il Muro di Berlino che li divideva da quelli ancorati al sistema democratico. La Jugoslavia era ormai stabilmente e autorevolmente nel gruppo dei Paesi non allineati: era stato Tito a impedire che i carri armati russi venissero a presidiare anche il confine con l’Italia. La “soglia di Gorizia” era diventata la frontiera ben descritta da Dino Buzzatti nel suo Deserto dei Tartari.
In cinque – Martina, De Simone, Tubaro assieme a padre Sergio Katunarich (l’intellettuale fiumano direttore del Centro “Stella Matutina” dei Gesuiti a Gorizia) e al dott. Rocco Rocco (medico e poeta) – decisero di organizzare il Primo Incontro Culturale Mitteleuropeo per corrispondere alla sollecitazione intrinseca a quella riunione delle due Giunte (la prima in assoluto in Europa tra due Comuni divisi dalla Cortina di ferro); anche (si è sempre sussurrato) su impulso del Vaticano che ben conosceva il legame storico di Aquileia cristiana (e non solo) con l’Europa, i Balcani ed il Mediterraneo; le radici sociali e culturali dei Paesi dell’Est; la complessa storia, antica e moderna, del rapporto tra la Chiesa e la Politica.
Quel convegno del maggio 1966, dedicato alla Poesia, organizzato in pochi mesi, svoltosi nella sala degli Stati Provinciali del Castello di Gorizia (il luogo simbolicamente più autorevole della storia civile ed istituzionale del Capoluogo della Contea Principesca e delle sue successive diramazioni), con la partecipazione di settanta poeti di Italia, Austria, Germania Federale assieme a quelli di Jugoslavia (sloveni, croati e serbi), Cecoslovacchia e Ungheria, ebbe un esito inaspettatamente favorevole, oltre ogni immaginazione.
E un ruolo davvero speciale lo ebbe Giuseppe Ungaretti, tornato dopo cinquant’anni sul Carso goriziano dove aveva vissuto la sua durissima esperienza di soldato volontario dell’Esercito Italiano nelle trincee sul San Michele, trovando sulla sua vetta l’ispirazione, in un’insperata giornata di sole, per la sua più breve e famosa poesia.
La sua dedica autografa a Iniziativa Isontina, al Comune di Gorizia e al suo giovane Sindaco, resta pietra scolpita nella memoria dell’Italia e dell’Europa, e anche di più: è un monito e un appello laico alla fratellanza universale, da allora attuale come non mai.
Dedica di Giuseppe Ungaretti
Il testo e il manoscritto della dedica di Giuseppe Ungaretti al Municipio di Gorizia, in occasione della sua partecipazione al I Incontro Culturale Mitteleuropeo, dedicato alla poesia, il 21 e 22 maggio 1966
Foto con dedica di Giuseppe Ungaretti a Iniziativa Isontina
Al Municipio di Gorizia, alla città che, tra le mie memorie, è al compiersi del primo cinquantennio, segno non d’una vittoria ma d’una speranza di fraternità finalmente raggiunta tra gli uomini.
Il nome di Gorizia, dopo cinquant’anni, mentre si compie il primo cinquantennio dalla vicenda che l’ha mutata, torna a significare per me ciò che per noi, soldati in un Carso di terrore, significava allora. Non era il nome d’una vittoria – non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega; ma il nome d’una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevano il nemico, ma che noi, pure facendo senza viltà il nostro cieco dovere, chiamavamo nel nostro cuore fratello.
Ho ripercorso ieri qualche luogo del Carso. Quella pietraia – a quei tempi resa, dalle spalmature bavose di fanga colori di sangue già spento, infida a chi, tra l’incrocio fitto delle pallottole, l’attraversava smarrito nella notte – oggi il rigoglio di fogliame la riveste. È incredibile, oggi il Carso appare quasi ridente.
Pensavo: ecco, il Carso non è più un inferno, è il verde della speranza; ecco, pensavo, invita a raccolta chi si propone di diffondere poesia, cioè fede e amore.
Ho sbagliato tante volte – chi oserebbe contarle, tante sono – : e sono difatti un uomo, posso vantarmi di essere stato sempre un uomo anche sbagliando – sono un uomo, sono in ogni momento che passa, fallibile; patisco, come ogni persona umana, d’abbagli.
Ma qui, sul Carso, quando mi cavavo dall’anima le parole, le mie povere parole, non sbagliavo. Ero solo, in mezzo ad altri uomini soli. Di null’altro eravamo possessori, noi poveri uomini, se non della propria solitudine, ciascuno. Il luogo era un luogo nudato, un luogo di spavento; non era spaventata la nostra anima, era sola, offesa che il nostro corpo fosse, in mezzo a tanta impazienza della morte, tanto, e solo, presente alla propria fragilità.
Fu allora, per in qualche modo guarirci dall’ossessione della fragilità, che nell’anima ci nacque e crebbe una forza maggiore e molto più importante della guerra e della morte; fu allora che riudimmo nascere, crescere nell’anima la forza vera, quella che può annientare nell’oblio la solitudine, quella che può muoversi inerme e incolume anche in mezzo al fulmineo, visibile, continuo mietere della morte; era il sentimento, ancora tremulo, ancora cauto, ma, come di solito succede alle voci di scoppio primaverile, già, per l’eccesso della delicatezza troppo impetuoso; era il sentimento che ogni uomo è, senza limitazioni né distinzioni, quando non tradisce sé stesso, il fratello di qualsiasi uomo, fratello come se l’altro non potesse essergli meno simile d’un altro sé stesso. Tornava a nascere tra lo scheggiarsi della roccia in voli di sventagliature micidiali, un sentimento al quale è ancora all’uomo urgente di abilitarsi, finalmente.
Ho altro a cuore da esprimervi. In Gorizia ha reso l’anima a Dio, Umberto Saba. Dall’anima eletta, da sempre questa città ebbe il letto d’agonia, invoco la grazia dell’ispirazione, che ci assista sempre.
L’eco internazionale del Convegno rimbalzò sicuramente negli ambienti della Mitteleuropa e, assieme al verbale di quella riunione delle due municipalità, arrivò all’attenzione sia del Governo Italiano, sia del mondo politico europeo, e in particolare di Willy Brand, allora Sindaco di Berlino, che aveva intrapreso con coraggio e lungimiranza la strada verso la riunificazione della Germania per realizzare anche quella dell’Europa.
Pochi mesi dopo Aldo Moro, a capo del Governo italiano, venne in visita ufficiale a Gorizia, incontrando in Municipio i due Sindaci di Gorizia e Nova Gorica, assieme al Presidente della Giunta Regionale del Friuli-Venezia Giulia e a quello della Repubblica Slovena (ricompresa nella Federazione Jugoslava ovviamente), con rispettive delegazioni: per incoraggiare la strada intrapresa e garantire il sostegno del Paese nella trasformazione del confine italo-sloveno in una opportunità di reciproco vantaggio con ruolo “speciale” della neonata Regione ponte.
Nel 1967 fu nominato Arcivescovo di Gorizia monsignor Pietro Cocolin, uno dei sacerdoti che, pur nell’ambito del loro mandato, erano a fianco di Rolando Cian e dei giovani goriziani e isontini, italiani, sloveni e friulani come lui, nativo di Saciletto di Ruda. Si ripristinava un orientamento che già in passato privilegiava la nomina di personalità profondamente radicate nel tessuto storico e culturale del territorio confinario.
A mettere ulteriormente in luce l’importanza del fattore culturale contribuì un’altra decisione: Michele Martina e Rolando Cian, con l’aiuto di Vittorio Bachelet, a quel tempo docente alla Facoltà di Legge dell’Università di Trieste, resero omaggio a quella nomina costituendo a Gorizia l’Istituto di Sociologia Internazionale (ISIG) che, con la guida del prof. Franco Demarchi, prese avvio l’anno seguente.
Sempre nel 1967, a suggello di questo importante percorso di apertura, Willy Brand invitò a Berlino Michele Martina, per illustrare davanti ai duemila delegati degli Stati Generali d’Europa, radunati nella Kongresshalle, quanto si stava facendo sul confine goriziano da parte delle due comunità adiacenti, componenti l’unica città pur divisa da un Confine di Stato che separava anche due sistemi politici.
Gorizia e Nova Gorica, a modo loro, ispiravano la futura storia d’Europa.
Testo del discorso di Michele Martina alla Kongresshalle di Berlino nel 1967
Testo del discorso di Michele Martina alla Kongresshalle di Berlino nel 1967 e alcune pagine dedicate all’evento, tratte da Iniziativa Isontina, Anno IX, N. 3/33, Gorizia, maggio-giugno 1967
Un contributo all’avvicinamento dei popoli
Esperienza Goriziana per l’unità europea
Discorso tenuto dal Sindaco di Gorizia on. Michele Martina nella Kongresshalle di Berlino il giorno 9 giugno 1967.
Mi sia consentito di esprimere brevemente alcune considerazioni di carattere generale ma soprattutto di portare qui, in questa assemblea, un’esperienza locale e personale, che penso sia veramente interessante e significativa, e che sono certo si inserisce, sia pure in una dimensione limitata, nel discorso più vasto sul contributo che i Comuni e in genere gli enti locali possono portare all’unità europea.
Uno dei più attuali problemi europei è quello di allargare l’area geografica dell’Europa come oggi si configura per la situazione politica esistente.
Anche Paesi che per la vicenda storica e politica di questo dopoguerra non fanno parte degli organismi economici ed associativi europei, ma che appartengono per tradizione, per cultura e per storia all’Europa, devono trovare il loro posto nella comunità europea di domani.
Anche noi siamo fra quelli che credono che l’Europa non vada costruita su schemi di convenienza economica, ma debba soprattutto guardare ad una integrazione politica che offre per matrici la storia, la cultura e la civiltà, e che deve esprimersi in comprensione fra i popoli in convivenze amichevoli fra nazionalità diverse, in umanità.
E’ acquisito generalmente che questa funzione di legame fra i popoli e di unione in una patria più grande va affidata soprattutto alle comunità locali, che hanno un più immediato contatto e che rappresentano più genuinamente le popolazioni.
In questa visione desidero recare qui un’esperienza della mia città: Gorizia.
Gorizia è una città tagliata fra le case da un confine che la chiude in una sacca. Tormentata e distrutta dalle dodici battaglie dell’Isonzo nella prima guerra mondiale, con la seconda guerra ha perso 9/10 del suo territorio, passati alla Jugoslavia. Un’economia sconvolta. Rancori fra le due popolazioni che la guerra e l’immediato dopoguerra hanno lasciato come piaghe insanabili a dividere le due nazionalità, italiana e slovena.
In questa situazione, con pazienza, 5 o 6 anni fa, affrontando momenti difficili nella stessa opinione pubblica, è iniziato fra i Comuni vicini uno scambio di contatti, un dialogo su problemi di reciproco interesse. Due città divise dalla frontiera avevano ed hanno questioni da risolvere: problemi di armonizzazione di piani regolatori di strade, di acque, di fognature, di terreni agricoli in Jugoslavia di proprietà di agricoltori italiani e viceversa. È stata la base di una prima discussione e di primi risultati che ha portato poi a problemi ben più ampi: un’autostrada internazionale di collegamento fra la rete autostradale italiana e quella centro-orientale europea che passerà per entrambe le città confinanti di Gorizia e Nova Gorica, traffici di confine, scambi economici fra le due zone. Problemi non di diretta pertinenza degli Enti Locali ma per la soluzione dei quali le municipalità si facevano portavoce presso i rispettivi governi. Si sono aggiunti parallelamente a questi colloqui scambi culturali e di esperienze: è ritornata nelle popolazioni una reciproca fiducia, i contatti fra gli abitanti delle due zone hanno registrato un aumento vorticoso che si documenta con il numero dei passaggi al confine. Oggi possiamo dire che Gorizia ha con la Jugoslavia una frontiera fra le più aperte. E si tratta di due Stato a regime politico ed economico diverso.
Oggi in queste due città divise da un confine per tanti anni difficili si lavora insieme per il futuro delle popolazioni.
Con lo stesso spirito Gorizia ha cercato ed avuto contatti con le regioni vicine: con l’austriaca Klagenfurt in Carinzia, con la jugoslava Lubiana in Slovenia. Sono la Carinzia e la Slovenia, con il Friuli Venezia Giulia, tre regioni, un triangolo di una piccola parte d’Europa, che hanno ripreso un dialogo cordiali, fattivo ed operano per un futuro di comune collaborazione. Ritrovano così idealmente ed anche nella realtà delle cose, nonostante tante difficoltà, quell’unione nella quale fino a cinquant’anni fa le aveva legate la comune civiltà mitteleuropea.
Mi rendo conto che la nostra esperienza è stata più fortunata di altre zone di confine che ancora oggi non hanno potuto avviare un dialogo per obiettive difficoltà a tutti noi note. L’augurio è che anche queste terre di confine possano trovare la strada di cooperazione in tutti i campi.
Ho voluto recare questo contributo, non come vanto, né solo come voce di speranza per il domani dell’Europa, ma come elemento concreto e sperimentato di quanto possano fare, operando con tenacia i Comuni europei pera la meta unitaria cui tutti aspiriamo e che è ancora il tema fondamentale di questo nostro incontro di Berlino.
Michele Martina
Questo resoconto evidenzia il ruolo decisivo avuto da Michele Martina e Jožko Štrukeli: il valore anche simbolico delle loro identità famigliari, di quelle culturali e politiche, così diverse da sembrare inconciliabili, è l’elemento centrale e quindi esemplare per comprendere la profondità della loro esperienza, che in tarda età sarebbe diventata amicizia fraterna. Si sarebbero intrecciate le loro famiglie, si sarebbero conosciuti e frequentati anche tra figli e parenti stretti, con i due amici sempre più “fratelli”: come non richiamare, dunque, la loro diretta testimonianza registrata in uno dei tanti momenti di convivialità con le nostre mogli, pochi mesi prima della scomparsa di Jožko, ormai colpito dal male che non gli avrebbe lasciato scampo.
Eravamo nel portico di casa sua, a Kromberk, in attesa di andare a cena assieme come tante altre volte: ma questa sarebbe stata proprio l’ultima. Nell’ora dell’intervista Michele e Jožko ripercorsero le tappe fondamentali della loro esperienza con due richiami che vanno sottolineati: il messaggio di fratellanza scritto da Ungaretti il 21 maggio 1966 in occasione del I Incontro Culturale Mitteleuropeo; e lo sguardo attento al futuro dei giovani che traspare, seppur fievole, verso la fine, mentre intanto si era affacciata la luna: a rassicurarci che un barlume di luce accompagna sempre la notte che scandisce l’alternanza tra il tramonto e l’alba di un nuovo giorno.
Intervista a Michele Martina e Jožko Štrukelj (2008)