Un lontanissimo viaggio alle porte di Spilimbergo
Lo splendido Coro ligneo realizzato tra il 1475 e il 1477 per il Duomo di Spilimbergo dal vicentino Marco Cozzi, e oggi conservato nella chiesa dei Santi Giuseppe e Pantaleone. Marco Cozzi, tra le altre sue opere, ha anche firmato il Coro della chiesa dei Frari di Venezia, capolavoro del Rinascimento.
Foto di Romeo Pignat
La gentile signora che rapisce la nostra vagante curiosità e per mezz’ora ci accompagna a scoprire gli angoli segreti del Castello di Spilimbergo come guida giunta da un tempo remoto, ci congeda con un sorriso e un appello: “Ditelo che Spilimbergo non è soltanto la Città del Mosaico!”
La sua, si capisce, non è una rimostranza contro un’istituzione e tantomeno contro una tradizione, ma un energico invito a guardare un “luogo” non soltanto come “luogo comune”.
Bastano un po’ di sensibilità, qualche nozione spiccia, ma soprattutto la curiosità calma del viaggiatore, per capire, anzi per comprendere con una visione d’insieme, come Spilimbergo sia molto altro: un Museo a cielo aperto, una Città d’arte, tanto più splendente quanto più incredibilmente (e fortunatamente) quasi ignorata dai turismi di massa.
Abbiamo già detto del Palazzo Dipinto nel Rinascimento da Andrea Bellunello. Del più insigne Duomo romanico-gotico del Friuli Venezia Giulia con affreschi della Scuola di Vitale da Bologna e la Pala d’organo firmata dal Pordenone, pictor modernus. Del mirabile Coro ligneo del vicentino Marco Cozzi, capolavoro nel suo genere. Belluno, Bologna, Pordenone, Vicenza… qui a Spengeberg (nome germanico) l’arte è sempre stata di casa e nella provenienza degli artefici appare chiaro come questa grande casa abbia avuto le porte aperte, sia stata pronta ad accogliere stili, segni, colori, nel segno di una ricercata bellezza, più che provinciale. Questo, del resto, è il destino dei crocevia di scambi e di commerci, dove insieme con le merci circolano idee e ispirazioni. E che Spilimbergo sia stata tale, lo testimoniano segni sopravvissuti all’ingiuria del tempo, come la macia, l’unità di misura di lunghezza per le stoffe ancora incisa sul pilastro angolare della Loggia nella piazza del Duomo e sovrastata dalla menorah, il candelabro a sette bracci: pare un ricordo del patto tra i conti di Spilimbergo e la comunità ebraica per il controllo sui commerci dei panni. È in questo clima vivace, fervido, che la città si è ammantata di affreschi, impreziosita di eleganti finestre veneziane e di portali finemente scolpiti, dipanandosi in una trama dove l’ombra dei portici si scioglie in monumentali, quasi astratti abbracci di luce. È in quest’aura estetica, in questa atmosfera di ombre palpitanti e di ampi silenzi luminosi, a cavallo tra Friuli occidentale e Friuli centrale, che è stata rilanciata nell’ultimo secolo l’arte musiva, riappropriandosi di un’antica vocazione sommessa e di un senso del bello connaturato, per cui risulta facile intendere come “Spilimbergo non sia soltanto la Città del Mosaico”, ma che da questo dato si possa partire per esplorare oltre, nello spazio e nel tempo.
Per percepire meglio l’energia propagata da Spilimbergo, si consiglia di uscire appena dai suoi confini urbici. Basta spostarsi entro un raggio di dieci di chilometri da questo epicentro artistico, per scoprire una preziosa concentrazione di chiese affrescate senza paragoni nel Friuli, se non intorno a un altro centro di gravità, quello di San Vito al Tagliamento. Poco dicono, ai più, nomi come Baseglia, Vacile, Lestans, Valeriano, Travesio, Provesano… e questo aumenta la meraviglia quando si varcano appartate soglie sacre, trovandoci davanti preziose gemme del Rinascimento. A Travesio si ammirano i suntuosi movimenti e le regali cavalcature di Giovanni Antonio De’ Sacchis, detto il “Pordenone”, da qualcuno considerato il terzo Michelangelo, dopo il Buonarroti e il Caravaggio. A Lestans la maniera del Pordenone appare “congelata” dalla tecnica del genero Pomponio Amalteo. A Provesano, nell’abside di un’anonima parrocchiale, si stacca la drammatica Crocifissione del nordico Gianfrancesco da Tolmezzo, con il suo linearismo, la sua pittura quasi grafica, che nell’ispirazione e nello stile deve molto al tedesco Martin Schongauer. Da queste parti, in questo crocevia attrattivo, si continua a essere sospesi tra Venezia e Germania, tra nord e sud, est e ovest.
Ma qui, nel corso del tempo, non si è sentito soltanto l’effetto di quella forza centripeta che ha innestato influenze da terre vicine e lontane, contribuendo ad aggiornare il genius loci. Qui, in questa plaga di storia e di storie, hanno agito anche forze centrifughe, soprattutto nelle spietate stagioni dell’emigrazione. “Impara l’arte e portala da qualche altra parte” potrebbe essere la variante locale di un proverbio universalmente noto. Da qui, infatti, sono partite nel mondo schiere di mosaicisti e terrazzieri che, tra fortune alterne e spesso senza il meritato riconoscimento, hanno lasciato altrove le loro opere. È una vicenda che affonda le sue radici negli anni d’oro della Serenissima, per poi propagarsi in Germania, nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Canada e, soprattutto, in Francia e nei Paesi francofoni, dove tra Ottocento e Novecento la volontà e il talento di questi friulani hanno lasciato autentici capolavori, da Parigi a Lione, a Rennes.
Per incrociare questa epopea basta una breve deviazione occidentale di pochi chilometri a Sequals, nella direzione di Maniago. Oggi questo lindo paese è famoso per aver dato i natali al “gigante buono” Primo Carnera, che il 26 giugno 1933 conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi, battendo per K.O. alla sesta ripresa Jack Sharkey. Entrato nel mito del pugilato, Carnera si confrontò poi con un triste declino, fino alla sua morte a 61 anni, il 29 giugno 1967, nella villa di Sequals. Il mosaico che lo celebra, in via Ellero, ci rammenta che questa è stata, prima e ancor più di Spilimbergo, la vera patria dei mosaicisti e terrazzieri, dove intere famiglie si sono cimentate per generazioni in questo mestiere creativo: gli Odorico, i Patrizio, i Carnera, i Mora, i Pellarin… E proprio a Sequals, con l’istituzione il 18 settembre 1920 della Società Anonima Cooperativa Mosaicisti del Friuli finalizzata alla “educazione professionale”, sono state poste le basi della Scuola di Spilimbergo fondata solo due anni dopo.
Ancora oggi, percorrendo le strade del centro o visitando il cimitero, s’incontrano interessanti opere musive lasciate dagli artigiani-artisti locali e ben documentate nel sito Sequalstorie.
Si apprezza, in particolare, la generosità di Angelo e di Valentino Cristofoli, che con le loro composizioni hanno abbellito molti angoli del borgo, rappresentando una delle più antiche famiglie di Sequals dedite a questo mestiere. Come scritto nel sito sopra citato, “Le schede individuali che coprono il periodo 1850/1940, consultabili presso l’anagrafe del Comune di Sequals, rivelano che su 60 individui maschi con quel cognome addirittura 50 svolgevano l’attività di mosaicisti”.
In piazza Cesarina Pellarin a Sequals un tondo con la dea Minerva, emblema delle arti figurative, e una rappresentazione simbolica dell’arte del mosaico e del disegno, sono stati realizzati sulla facciata della sua casa natale da Gian Domenico (Jean-Dominique) Facchina (1826-1903), celebrato dalla lapide commemorativa qui posta dal Comune: “L’arte sua condusse a insuperati trionfi onorando nel mondo sé stesso e la sua patria”. Il genio friulano formatosi a Venezia, rivoluzionò e rilanciò l’arte del mosaico nel secondo Ottocento, brevettando la tecnica di esecuzione “a rovescio su carta” che accelerò i tempi della posa, facilitando la realizzazione di grandi opere. Non a caso Facchina, dopo il successo all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, fu ingaggiato dall’architetto Charles Garnier per il rivestimento dell’Opéra, raggiungendo fama mondiale, come testimonia la sua tomba ospitata nel cimitero delle celebrità di Père-Lachaise a Parigi.
Pochi minuti d’auto dividono Sequals da Meduno, dove la parrocchiale ospita un’acquasantiera di Giovanni Antonio Pilacorte, scultore nato a Carona, che durante il Rinascimento portò a Venezia l’arte dei maestri lapicidi ticinesi, per poi trasferirsi a Spilimbergo con la famiglia. In questa parte del Friuli lasciò la sua autorevole impronta in innumerevoli opere, contribuendo forse a quell’humus da cui sono germogliati quei valenti scalpellini friulani emigrati in tutto il mondo.
Una di queste storie, sicuramente la più “epica” e singolare, s’incontra (sbiadita) nella frazione di Borgo Del Bianco, un grumo di case appollaiato sopra Meduno, a dominio del fondovalle solcato dal Meduna e della convalle del torrente Colvera. È la storia di quel Luigi Del Bianco (1892 – 1969), nato a Le Havre da famiglia medunese, e assurto a maggior gloria negli Stati Uniti negli anni Trenta, come capo scultore dei colossali ritratti dei presidenti degli Stati Uniti al Mount Rushmore National Memorial in South Dakota. È l’apoteosi simbolica di un lungo cammino di speranze che in quest’opera monumentale ha trovato il suo compimento e la sua sublimazione. Qui il legame humus-genius-nexŭs (collegamento con l’altrove) appare intenso, paradigmatico, quasi innalzato all’ennesima potenza, come se il partire sia stato per secoli condizione necessaria per fecondare talenti e potenzialità intrappolati nel pur fertile terreno di casa.
Ormai è ora di riprendere il nostro piccolo viaggio verso Maniago, passando per la Val Colvera e con una breve sosta a Navarons, paese di moti risorgimentali che videro in prima linea il medico Antonio Andreuzzi. Ma anche paese della madre di quella Novella Cantarutti che scrisse i suoi versi proprio nella varietà locale “felicissima, fortemente vocale, inquietante” (secondo Pier Paolo Pasolini) della lingua friulana, entrando nel novero dei grandi poeti del Friuli e dell’Italia del Novecento. “Innestata, potrei dire come una pianta” nella terra materna di Navarons, la Cantarutti come pochi altri seppe coglierne la forza ancestrale, legata anche ai sassi dei fiumi e alle pietre delle montagne da cui ha preso vita l’arte dei mosaicisti e degli scalpellini. Una sensibilità acuta, radicale, che emana dalla poesia Gent da la Grava (Spilumberc), posta sulla stele musiva a lei dedicata davanti alla Biblioteca civica di Spilimbergo.
“Li’ gravi’ a’ bévin / il sarégn da l’aga / tal Tilimìnt, / e ta li’ pièri’ strachi’/ dal cjscjel /al duàr un altri timp (…)”. “Le ghiaie bevono / il sereno dell’acqua / nel Tagliamento, / e nelle pietre stanche / del castello / dorme un altro tempo (…)”.
Quanti incontri, quanti collegamenti hanno amplificato questa minuscola escursione tra Spilimbergo e Maniago. In poche manciate di case, abitate da manciate sempre più sparute di persone, abbiamo trovato il mondo: da Parigi al South Dakota. Strati di arte, di mestieri, di epica e di poesia si sono sovrapposti in una pila che attraversa Paesi e Continenti, una sorta di carota “geo-antropologica” della più varia umanità, in questo Friuli immensamente piccolo.
E sfiorando gli incantati borghi presepe della Val Colvera, ci viene ancora incontro con sorriso sornione la storia incredibile dei fratelli Dozzi di Frisanco, raccontataci da Carlo Beltrame. Che siano stati veramente loro, come ardiscono affermare anche molti autorevoli siti nostrani, gli “inventori” del salame ungherese? O magari quel mitico barba Nane da Budoia, che avrebbe messo su fabbrica in Ungheria nel 1863, chiamando a sé (anni dopo per ragioni anagrafiche) i fratelli di Frisanco, poi diventati produttori di rinomati salumi, da Budapest alla Romania? Difficile saperlo…
Così, per gioco, abbiamo deciso d’interrogare l’intelligenza artificiale in ungherese, per evitare pregiudiziali campanilismi. La risposta della nuova Sibilla è stata (comprensibilmente) diplomatica: “la scoperta del salame ungherese non è attribuita a una sola persona, ma la tradizione del salame risale a molti secoli fa. I primi salami furono prodotti a Szeged, una città sul Tibisco nella Grande Pianura. Un imprenditore di nome Mark Pick decise di tentare la fortuna producendo salumi e fondò la famosa azienda Pick. La tradizione del salame ungherese è continuata da allora e il salame di Pick è ancora uno dei salami ungheresi più conosciuti e amati.”
A questo punto ci siamo risolti a inseguire le tracce di Marck Pick, supportati da insistenti indizi che provenivano anche da altre fonti, e abbiamo trovato una notizia sfiziosa nel sito ufficiale del salumificio Pick fondato nel 1869: “the company was founded by Márk PICK, an agricultural trader who learned the skills of salami-making from Italian maestros”. E se tra gli “Italian maestros” figurasse proprio Barba Nane?
La provocazione è d’obbligo, ma lasciamo ai gentili lettori il piacere dell’indagine e, magari, la soddisfazione di una risposta definitiva. A noi basta il sapore lasciato da questo viaggio alle porte di Spilimbergo, che ci ha fatto sentire orgogliosi della nostra, piccola terra e, insieme, ci ha fatto sentire cittadini del mondo. Ma, soprattutto, ha confermato una nostra profonda convinzione: tutto ciò che esiste di bello e di buono nel nostro Pianeta, nasce nelle zone di transito e di confine, dove si confrontano le esperienze e le culture degli uomini.