1900, un villaggio di casoni sull’Adriatico. La giovane Agata perde sua figlia alla nascita. Secondo la tradizione cattolica, l’anima della bambina è condannata al Limbo. Agata sente parlare di un santuario in montagna, nella (immaginaria) Val Dolais, dove i neonati sono riportati in vita per un solo respiro, à répit, per battezzarli e salvare la loro anima.

Agata decide d’intraprendere segretamente e da sola il viaggio dall’Adriatico verso la remota valle, portando con sé il corpicino di sua figlia di nascosto in una scatola. Lungo il cammino incontra Lince, un ragazzo solitario e inizialmente diffidente che si offre poi di aiutarla. Partono per un’avventura che permetterà a entrambi di avvicinarsi al miracolo.

La spiaggia presso il villaggio di Agata. Brussa

Questa l’essenza di Piccolo corpo, primo lungometraggio della giovane regista triestina Laura Samani (classe 1989), presentato alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2021, accolto con successo dalla critica e dal pubblico: è un folgorante film d’esordio, sceneggiato dalla regista con Elisa Dondi e Marco Borromei, prodotto dalla friulana Nefertiti Film di Alberto Fasulo e Nadia Trevisan, in collaborazione con la francese Tomsa Films e la slovena Vertigo.

La regista Laura Samani

L’opera è concepita come una “fiaba cruda”, che può essere letta a differenti livelli ma è stata volutamente scritta per essere compresa anche da un bambino.

“Abbiamo pensato la storia come una fiaba dei fratelli Grimm, come il passaggio in un bosco denso d’insidie e di paure. Un percorso morale e pedagogico, dove naturalmente la tensione si scoglie nel lieto fine”,  che evoca in modo originale L’Atalante di Jean Vigo e La forma dell’acqua di Guillermo del Toro.

La pellicola è segnata dalla forte presenza delle due giovani e ispirate protagoniste, che avvicinano lo spettatore a una vasta gamma di sentimenti, trasalimenti, chiusure e abbandoni. Sono Ondina Quadri, attrice professionista romana, che interpreta il selvatico Lince, con il suo carico irrequieto d’insicurezze e di segreti; e Celeste Cescutti, esordiente udinese, che incarna Agata, eroina dalla spirituale tempra furlana, il cui nome stesso (dal greco agathós) risplende di bellezza interiore.

Le due protagoniste del film: da sinistra Ondina Quadri e Celeste Cescutti

È un film fisico per lo stile di ripresa che accarezza i corpi, per la luce livida agli estremi degli inverni con cui lo sloveno Mitja Ličen restituisce l’asprezza autentica, quasi balcanica, dei paesaggi friulani. Ma è anche un film metafisico, che ci cala nel mondo atemporale e simbolico delle fiabe, popolato da briganti, con miniere in cui smarrirsi, guaritrici stregonesche annidate in tetri stavoli, barche sospese su acque di soglia… È un film che ci accompagna in un viaggio, quasi antropologico, dalla Laguna alla Carnia e al Tarvisiano, attraverso i territori della nostra regione, in un continuo declinare e contaminarsi di dialetti e di lingue.

É, soprattutto, un lavoro che ha il merito di sedimentare dentro di noi e di suscitare tante domande.

Con la (simpatica) regista Laura Samani, cerchiamo solo alcune risposte.

“Laura, che cosa ha ispirato e guidato il vostro film?”

“Con Elisa e Marco, i due cosceneggiatori, non abbiamo mai perso di vista i due (N.d.R.: indissolubili) poli tematici del film: identità e appartenenza. L’essere se stessi non può prescindere dall’appartenere a un mondo, a una comunità. L’identità di Agata entra in crisi con il parto, con la sua creatura nata morta, e destinata al Limbo, alla sepoltura senza nome in una terra incolta. La comunità cui appartiene e le regole imposte dalla religione, escludono Agata dall’elaborazione del lutto, minando la sua maternità. Per questo, ribellandosi al suo mondo, Agata decide di portare il suo frut nel santuario della Val Dolais, per battezzarlo, per darle un nome. La dignità di una figlia ritrovata, come in un transfert, restituirà ad Agata dignità e identità di madre e di persona. 

Anche Lince è, evidentemente, alla ricerca di se stesso. Il suo destino ramingo, la sua selvatichezza, la sua identità ambigua, il suo soprannome da animale elusivo dei boschi, i suoi smarrimenti celano una frattura con la famiglia e la comunità originaria: una solitudine profonda, derivata da un’esclusione. Che cosa faccio se nessuno è con me? Chi sono, se sono solo? Identità e appartenenza viaggiano insieme, sempre.”

Celeste Cescutti, in una scena iniziale del film

“In un film denso di silenzi, la parola assume un forte significato. Uno dei momenti più intensi del film, è quando Agata e Lince stabiliscono un contatto più profondo, scambiandosi reciprocamente le parole dei propri dialetti.”

“La parola è creatrice. In principio era il Verbo’, scrive San Giovanni. La locuzione latina ‘Nomen est omen’ ci ricorda che il nome è un presagio.

Si pensi al fatto di dare un soprannome. È un po’ come rinascere, come acquisire una nuova identità.”   

Dalla parola alla lingua, anzi alle lingue e ai dialetti del nostro territorio, grandi protagonisti del film: il dialetto di Marano, il friulano, lo sloveno… Che cosa ti ha spinto a questa scelta?”

“Inizialmente un’esigenza filologica. Poi, strada facendo, è diventata un’urgenza “politica”. Il Friuli Venezia Giulia, regione di frontiera, ha particolarmente patito l’italianizzazione durante il fascismo. Ogni lingua madre è famiglia. È la famiglia che porti con te quando vai lontano, quando ti manca quella naturale: pensa agli emigrati.

Questi pensieri, un po’ alla volta, hanno preso il sopravvento sulla filologia: abbiamo perciò deciso che gli attori, quasi tutti non professionisti e variamente friulani, parlassero liberamente nelle proprie lingue madri, nei propri dialetti, con una miriade d’influenze locali, potendo così meglio esprimere la propria verità, la propria identità-appartenenza.”

“I dialoghi sono sempre sottotitolati, tranne quando Lince parla in sloveno con i minatori. Perché questa scelta?”

“Perché volevamo far sentire, in quel momento, lo spaesamento di Agata, che viene da una comunità chiusa, e quindi incapace di comprendere una lingua foresta. È Lince, che è nomade, compromesso con il mondo, che se la cava, che fa da ‘mediatore culturale’.”

“Lingue e territori. Dove è stato girato il film? E i frequenti momenti rituali – il rito del sangue nel mare, il taglio dei capelli ad Agata, il battesimo dei bambini nati morti nel santuario montano – evocano tradizioni locali o sono frutto della vostra scrittura?”

“Il film attraversa il Friuli, partendo dal Veneto orientale: dalla spiaggia della Brussa si prosegue verso il canale del Cormôr, ll bosco Baredi di Muzzana del Turgnano, il folador di Villa Mangilli Schubert, dove Agata è rapita per essere venduta come balia da latte.

Si conquistano, poi, le Prealpi partendo dal greto del Tagliamento ad Amaro, per arrivare agli stavoli di Orias in Val Pesarina. Si chiude nel Tarvisiano: il lago è quello del Predil, con controcampo sul Lago Superiore di Fusine.

Il rito marino del sangue e il taglio dei capelli subito da Agata, sono scelte simboliche: in particolare il secondo rimanda alla privazione della forza individuale, come ricordano la storia biblica di Sansone o il martirio di Giovanna d’Arco.

Sono invece realmente esistiti i santuari per il battesimo dei bambini nati morti, e il rito – tra il sacro e il profano – era spesso officiato da donne, come si vede nel film. Uno di questi luoghi era il Santuario della Madonna di Trava, a Lauco. Questa scoperta mi ha spinto a fare ricerche più approfondite e ha ispirato il soggetto di Piccolo corpo.

Il lago, “soglia” del santuario dove si battezzano i bambini nati morti

“Un’ultima domanda: che cosa ti è rimasto di questa esperienza?”

“La domanda quasi mi commuove. Piccolo corpo ha avuto una gestazione travagliata, di cinque anni. Lungo questo percorso, ostacolato dalla pandemia, tutte le persone incontrate, dai produttori ai tecnici, dagli sceneggiatori agli attori, si sono messe in gioco fino in fondo. Ci siamo scoperti vulnerabili, e siamo diventati più forti. Ci siamo scarnificati, messi a nudo. Ci siamo ritrovati uniti ancora di più, siamo diventati comunità. Piccolo corpo non è solo il mio film d’esordio. È stata un’occasione e un’esperienza collettiva, che mi ha cambiato la vita.”

E davvero una grande energia sostiene ogni sequenza di Piccolo corpo: un film da guardare e da riguardare.

Ringraziamo la regista Laura Samani e la giornalista Viviana Ronzitti (ufficio stampa).

Si ringrazia il produttore Nefertiti Film.