Giovedì 25 novembre

I Sessione ore 10.00

Presentazione del Convegno e saluti programmati delle Autorità:

Nicolò Fornasir, Vicepresidente dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei

Diego Bernardis, Consigliere Reg.le XII Legislatura e Presidente V Commissione Cultura

Prolusione generale:

Fulvio Salimbeni, Presidente dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei

Presenta e coordina:

Antonia Blasina Miseri, Presidente della Società Dante Alighieri – Comitato di Gorizia

II Sessione ore 16.00

Introduce e modera:

Stella Marega, caporedattore di Kadmos

Interventi di:

Alberto Cavaglion, Università degli Studi di Firenze

Pierfranco Bruni, scrittore

Lidia Caputo, Università degli Studi del Salento

Miha Kozorog, ZRC SAZU

Igor Tuta, pubblicista, nipote di Ljubka Šorli

Arpad Szakolczai, Professore emerito della University College of Cork

Gabriele Zanello, Università degli Studi di Udine

Venerdì 26 novembre

III Sessione ore 10.00

Introduce e modera:

Giulio Maria Chiodi, Università degli Studi di Pavia

Interventi di:

Suzana Glavaš, Univ. degli Studi di Napoli – “L’Orientale”

Neva Makuc, ZRC SAZU – Research Centre of the Slovenian Academy of the Sciences and Arts

Ana Toroš, Univerza v Novi Gorici

Norbert Matyus András, Università cattolica Pázmány Péter (Budapest)

Danila Zuljan Kumar, ZRC SAZU – Research Centre of the Slovenian Academy of the Sciences and Arts

Kristjan Knez, Centro Italiano “Carlo Combi” (Capodistria)

IV Sessione ore 16.00

Introduce e modera:

Elena Guerra, Centro Ricerca Intelligenza Artificiale e Filosofia

Hans Kitzmüller, germanista e scrittore

Pierfranco Bruni, scrittore

Egyd Gstättner, scrittore

Antonella Gallarotti, bibliotecaria, già responsabile dell’Ufficio manoscritti e del Fondo Carlo Michelstaedter

Dialogo aperto tra scienza e filosofia:

Andrea Vacchi (Università degli Studi di Udine), Elena Guerra (CRIAF), Alessandro Arbo (Università di Strasburgo) e Giulio Maria Chiodi (filosofo)


Arpad Szakolczai

INTERVENTO DELLA SECONDA SESSIONE
Potete seguire questo intervento e quello degli altri relatori della II sessione, a partire dalle ore 16.00 di giovedì 25 novembre 2021

Sulla lingua arcaica fondata sulle vocali lunghe

Questo articolo è fondato su un presupposto semplice, ma di certo sorprendente: tutta la linguistica moderna è basata su fondamenti sbagliati! Com’è possibile, vi chiederete, che migliaia di agguerriti linguisti così certi delle proprie convinzioni, che hanno passato vite intere a sezionare le lingue indoeuropee lasciando montagne di libri in fiumi di inchiostro, si siano sbagliati?

Per una tale constatazione serve una giustificazione immediata, ed una spiegazione chiara, semplice e convincente. Provo a darvene una. La linguistica moderna, come è evidente, è stata scritta in lingue indoeuropee, e in gran parte analizzando le stesse lingue indoeuropee. Tutti sanno che il fondamento della linguistica moderna è la realizzazione che ci sono ‘lingue indoeuropee’; e che non solo ci sono legami stretti tra le lingue latine e germaniche, ma anche tra le lingue indo-ariane, il sanscrito ed il persiano.

L’importanza della scoperta è evidente, ma purtroppo questa stessa scoperta crea un problema: la grande famiglia delle lingue indoeuropee è solo uno dei tanti gruppi di lingue al mondo, tra più di una dozzina. Inoltre, non ci sono segni evidenti che sia un gruppo particolarmente privilegiato o particolarmente arcaico. Di conseguenza, una linguistica fondata sulle lingue indoeuropee commette un errore fondamentale e primitivo: generalizza da un solo caso.

La ragione per cui questo errore non è abbastanza riconosciuto forse sia dovuto al fatto che il fondamento della linguistica moderna non è una lingua particolare, ma proprio il riconoscimento dell’esistenza di una famiglia di lingue indoeuropee.

La domanda allora riguarda dove sia questo errore, come sia significante, e come lo si potrebbe correggere.

La domanda principale di certo riguarda l’origine delle parole, una domanda che non può essere risolta, anche se dalla prospettiva del metodo genealogico sia evidentemente importante (Auroux 2007). Questo metodo, nel senso più ampio, come fu sviluppato dopo Nietzsche da Max Weber, Elias, Voegelin, Borkenau, Koselleck o Foucault, dice che ogni pratica o istituzione sociale può essere compresa solo partendo delle sue origini.

L’origine gli dona la sua esistenza e la sua essenza. Altrimenti leggiamo solo le nostre preferenze ed i nostri pregiudizi, partendo dal presente verso il passato, commettendo l’errore grave di ‘inferenza in reverso’, come accennato da Nietzsche. Questo non significa condurre tutto a un punto assoluto di origine, che è impossibile, piuttosto, si deve provare, complimentando la genealogia Nietzscheana con l’antropologia politica, a ricondurre il fenomeno sotto investigazione ad un punto liminale, da dove il fenomeno comincia ad essere comprensibile.

Nel caso delle parole questo problema è abbastanza difficile, perché l’origine delle lingue può essere cercato solo attraverso una lingua, generando un cerchio da dove è impossibile uscire. Allora la domanda è la seguente: senza trattare il problema impossibile dell’origine delle lingue, come si potrebbe trovare una famiglia linguistica che sia probabilmente la più vecchia delle lingue indoeuropee?

Come quasi sempre, Platone offre un aiuto, e con il dettaglio particolarmente significativo di un dialogo specialmente importante. Il dialogo è il Filebo, uno degli ultimi, e per ragioni di metodo particolarmente importante; e il dettaglio è il 18b, all’inizio del dialogo (il dialogo inizia a 11a), poco dopo una sezione chiave, uno delle più importanti frasi di Platone, il quale definisce la via regale di ottenere la conoscenza (16c-17a), ‘per cui le cose che sempre si dice che siano e che sono costituite dall’uno e dalla molteplicità contengono in sé il seme della finitezza e dello sconfinato/infinito’ (16c), un ‘dono degli dei agli uomini’, venuto dal cielo ‘grazie anche a un certo Prometeo, insieme ad un fuoco luminosissimo’. Poco dopo, e come un’interpretazione del testo precedente, una soluzione della definizione dello sconfinato/infinito (apeiron), Platone formula una sua idea di linguistica che è particolarmente importante per noi.

Il sconfinato o l’infinito qui è il suono, è il riconoscimento del limite dell’esistenza della vocale; o il fatto che non c’è una sola vocale, sempre uguale che suona fino all’infinito, ma ci sono molte vocali; e poi la realizzazione che ci sono anche ‘altri elementi che non appartengono alla vocale ma sono consonanti, e che anche queste si possono quantificare numericamente (18b-c). La conclusione ovvia è che secondo Platone c’è un chiaro ordine temporale-gerarchico fra vocali e consonanti: il riconoscimento e l’uso delle vocali precede quello delle consonanti (con-sonanti).

Questa idea di Platone è piena di buon senso. Una vocale (nell’etimologia di ‘vocale’ troviamo ‘voce) è indipendente, non ha bisogno di altri, mentre una consonante no: ‘co-suona’.

Ma, per quanto triviale possa sembrare questa realizzazione, Platone ci tiene a citare le autorità più alte possibili per giustificare la sua idea. Nè è soddisfatto di citare come autorità gli dèi greci, ma attribuisce il riconoscimento al ‘Teuth’ egiziano. Qui dobbiamo ricordare che secondo Erodoto (II.50) gli dèi greci sono di origine egiziana, e che Solone, il grande politico, padre della costituzione Atenese, ha lui stesso visitato l’Egitto, ed è anche stato introdotto nei misteri dei sacerdoti locali. Siccome Platone stesso era un parente distante di Solone, non è per nulla escluso che Platone abbia trasmesso qualcosa dalle conoscenze più segrete dell’Egitto. Il fatto che il corrispondente greco di Teuth è Ermes, ha la sua importanza, perché nella mitologia greca la padronanza delle lingue appartiene a Ermes (vedi ermeneutica).

Lo strano caso delle vocali e le lingue indoeuropee

Preso atto dell’importanza delle vocali e la loro vicinanza alle origini delle lingue, sembra particolarmente strano che tali vocali siano trascurati delle lingue indoeuropee. Si vede questo in due segni che si rinforzano. Per primo, nell’etimologia delle lingue indoeuropee le vocali non giocano quasi nessun ruolo: nel 95% dei casi la vocale ‘e’, serve semplicemente a collegare due consonanti. Addirittura, come si legge su Wikipedia – e in tali nozioni comuni Wikipedia è affidabile – “Il centro di una radice proto-indoeuropea è la vocale apofonica (di solito *e, ma alcune volte anche *a nel grado pieno).”. Per secondo, una grande parte delle lingue indoeuropee usa solo cinque vocali: “a”, “e”, “i”, “o”, e “u”; vedi il latino come modello. È vero che questi hanno versioni corte e lunghe, poi ci sono dittonghi, vocali nasali e altri, ma una mancata definizione e descrizione esaustiva delle vocali ha sicuramente una ragione, probabilmente la stessa ragione per la quale manca il ruolo etimologico delle vocali: una negligenza generale delle lingue verso le vocali.

Le conseguenze per la linguistica sono inestimabili, anche se fino ad adesso quasi ignorati.

Il motivo è semplice. Se qualcuno che parla una lingua indoeuropea si occupa di linguistica, di certo scrive anche in una lingua indoeuropea e prende come dato di fatto che le vocali veramente non contano: sono solo riempimento dello spazio fra due consonanti, rendono possibile che quelle possano avere un suono.

Ma proprio qui abbiamo ricevuto la risposta alla nostra domanda – o meglio, quale sia il prezzo di una linguistica fondata sulle lingue indoeuropee; e come si potrebbe superare questo difetto. Il prezzo è la dimenticanza del ruolo giocato dalle vocali nei fondamenti delle lingue, o la trascuratezza di una protagonista. La soluzione è l’uso di una lingua o una famiglia di lingue fondate sulle vocali.

A questo punto, come già abbiamo segnalato, arriviamo a un ostacolo insormontabile: prima, perché ogni persona può ragionare sul linguaggio solo partendo dalla sua famiglia di lingue, e quindi una certa distorsione è inevitabile; e seconda, perché l’idea di avere tante linguistiche come sono le famiglie di lingue sarebbe la fine della conoscenza – non dimenticando il fatto che non sia affatto chiaro quante famiglie di lingue ci sono.

Questo articolo propone una soluzione per tagliare questo nodo Gordiano: fra le famiglie di lingue le lingue agglutinanti rappresentano un caso particolare.

Le lingue agglutinanti

Le lingue agglutinanti costituiscono una famiglia di lingue riconosciute da molto tempo. Una loro caratteristica importante sta nel fatto che mentre le altre famiglie, almeno fino ai tempi storici, appartenevano ad un territorio definito e contiguo, le lingue agglutinanti si trovano in ogni continente – ma non sono mai le lingue dominanti. Al contrario, in ogni continente appaiono nella periferia, come se spinte dal centro – come le montagne alte (per es. Urali-Altai o Pirenei), o su isole o penisole lontane (Giappone, Korea, Indonesia e dintorni), o le foreste tropicali dell’Africa, in contrasto con le aree centrali rispettive, come il Mediterraneo, il Mar Rosso, o la Baia di Guinea. Come se queste lingue, un tempo fa unite, fossero state disperse dalle vicissitudini della storia.

Anche la caratteristica omonima della famiglia suggerisce arcaicità. L’agglutinazione indica un tipo di incollaggio, o la costruzione delle parole attraverso l’aggiungere di prefissi e suffissi. Il metodo è molto semplice e segue la maniera di costruire della natura.

Il funzionamento naturale di tale costruzione è aiutato da altre due caratteristiche delle lingue agglutinanti – ed in ognuno torna anche l’importanza delle vocali. Tale costruzione da un lato necessita di radici corte, altrimenti l’aggiungere di prefissi e suffissi produrrebbe parole incredibilmente lunghe, e le parole diventerebbero impronunciabili. Ma tante radici corte si possono costruire solo se anche le vocali giocano un ruolo nella creazione delle radici – in contrasto con le lingue indoeuropee. Da un altro lato, anche i suffissi devono contenere varie vocali, altrimenti la lingua sarebbe impossibilmente monotona. Le lingue agglutinanti rendono l’agglutinazione liscia e interessante attraverso un’altra caratteristica, l’armonia vocale, o una distinzione fra vocali alti e bassi: infatti, alle radici che contengono vocali basse sono aggiunti suffissi bassi, alle radici con vocali alti quelli alti.

Un’altra caratteristica delle lingue agglutinanti è che non hanno dittonghi – con tanti vocali, non c’è ne bisogno. Finalmente, tante vocali contribuiscono anche alla stabilità delle lingue – anche nel senso della teoria di continuità di Mario Alinei.

Riassunto intermedio

Le idee indicative avanzate conducono alla costatazione che le lingue agglutinanti sono semplici, arcaiche, formano parole che si distinguono chiaramente e bene, evitano le ambivalenze di dittonghi e le spiacevoli distinzioni culturali-sociali che seguono, e – attraverso l’armonia vocale – in genere suonano particolarmente belle.

Qui c’è un salto nell’articolo che, illustrando i punti precedenti, analizzerà in qualche dettaglio una lingua agglutinante, l’ungherese. La ragione è semplice: questa è la madrelingua dell’autore, che altre lingue agglutinanti non conosce. Nessuno è perfetto. Ma da un tempo costruisce l’argomento formulato, che rappresenta una sfida per la linguistica esistente, e per il supporto ulteriore dell’argomento l’ungherese serve bene. Di certo servirebbe l’integrazione di altre lingue agglutinanti nell’argomento, per renderlo anche più convincente, ma si deve cominciare da qualche parte, e io lo posso fare solo attraverso l’ungherese.

I seguenti paragrafi, oltre alla mera illustrazione dei punti precedenti, provano anche a discutere un problema filosofico di importanza capitale: come si può esaminare il tema della realità della realtà attraverso una lingua come lingua.

La lingua arcaica vocale e il problema della realtà, o la relazione tra il concreto e il generale

Una delle caratteristiche più importanti dell’ungherese è che contiene non meno di 14 vocali. Qualsiasi ungherese che ha passato lungo tempo fuori dall’Ungheria e ha provato a parlare dalle caratteristiche dell’ungherese con stranieri deve sapere che per loro questa differenza è altamente difficile da comprendere, e in genere non accettano tale differenze fra vocali (“corto o lungo, il vocale è lo stesso”).

Si deve aggiungere che non si tratta – almeno non in tutti casi – di semplici versioni corte e lunghe dello stesso vocale. Per esempio l’ “á” non è una versione lunga di “a”, ma un vocale abbastanza diversa. L’ “a” si pronuncia come in ‘bark’ inglese, ma è corto; e l’ “á”, che si pronuncia simile alla “a” semplice italiana è sempre lunga. Infatti, l’ungherese ha 14 vocali, ma non ha le due vocali più comuni delle lingue indoeuropee, il corto “a” e “e”.

Il problema più grande, non per la pronuncia, ma per la logica linguistica, è costituito dalle vocali lunghe. Io non sono mai riuscito a convincere nessuno che tali vocali sono diversi dalle versioni corte. Ma il problema di certo è di ordine cardinale, ed è anche collegata ad un’altra caratteristica dell’ungherese, l’accento messo sempre all’inizio delle parole. Secondo il ragionamento ‘straniero’, l’ungherese semplicemente confonde le due cose: invece di indicare l’accento, genera un’altra vocale.

Un problema particolarmente acuto è generato da due vocali, quasi unici per l’ungherese, l’ “ő” e l’ “ű”, che producono difficoltà speciali per il computer (per esempio nel font spesso usato da me, il Garamond, queste due vocale non esistono).

Tutti questi problemi possono essere risolti insieme con l’idea che per esprimere la realtà concreta attraverso le lingue servono vocali, e in particolare vocali lunghe all’inizio delle parole; e proprio qui le vocali “ő” e “ű” giocano un ruolo proprio cardinale.

Il punto può essere visto nel modo seguente – presentando solo un argomento preliminare, attraverso alcuni esempi. Scelgo quattro vocali lunghe, come radici arcaiche di importanza particolare: a parte l’ “ő” e l’ “ű”, anche l’ “á”-t e l’ “é”. In ciascuno dei casi il senso fondamentale è legato a un’esperienza cardinale della vita umana (vedi la radice chiave delle lingue indoeuropee, *PER; per dettagli, vedi Turner 1985; Szakolczai 2008)

Il senso delle quattro vocali è il seguente. L’ “á” rappresenta un urlo, legato al dolore o il riconoscimento di un pericolo; in questo senso è ancora usato nella vita comune, e non solo nell’ungherese (nelle altre lingue l’ “a” è collegato a un “j”, “h”, o “y”, tali lettere ausiliare nelle lingue indoeuropee spesso accompagnano una vocale lunga iniziale, perché queste lingue hanno una certa difficolta a cominciare una parola con una vocale lunga; ma vedi anche l’ungherese “jaj”, espressione diretta di dolore, dove purtroppo l’ “a” è diventato corto). Ma solo in ungherese si può aggiungere all’ “á” una serie di radici cruciali. Come “ár”, o l’acqua dell’inondazione, uno dei disastri più gravi che può succedere nella vita, e una serie di parole con un senso chiaramente negativo che sono derivati da qui: come “ár” (prezzo), che si deve pagare per una cosa, o con i soldi, o con qualcos’altro (come il sangue); o derivati più lontani, come “ártás” (fare male), “árny” (ombra), “ártani” (nuocere), o “ártalom” (danno), ecc… O l’ “ál”-ság (falsità), che deve essere riconosciuto e evitato, come l’inondazione’ – a come l’ “átok”, la maledizione. Anche più vicino alla falsità dell’inondazione si trova l’ “áz”-ás (fradicio), esprimendo la stessa esperienza di essere soffocati dall’acqua. Ma, in senso stretto, il più vicino al “ál”-ság (falsità) si trova nell’ “ám”-ítás (fingere). La serie potrebbe essere continuata a lungo.

Anche l’ “é” come radice principale-arcaica (Ur-Erlebnis) esprime un urlo, ma nel senso opposto, positivo: comunica una scoperta; la sua essenza non è un chiedere aiuto, ma invita l’attenzione. In inglese esiste anche questo, ma ancora con lettere ausiliari, come “hey”. Questo “é” è proprio il più importante, ricco, variopinto radice principale dell’ungherese, perché una serie delle parole più importanti sono derivate da questo. I seguenti sono solo indicazioni preliminari, approssimative.

Come nel caso di “á”, anche nel caso di “é” le parole più frequenti e importanti sono prodotti con il consonante “r”. L’ “ér” – proprio come l’ “ár” – e una parola plurivalente, e particolarmente importante. Prima di tutto – anche se sia difficile di stabilire una precedenza esatta – come l’ “ár”, anche l’ “ér” è legato all’acqua, ma non a un’inondazione che attacca da ogni parte e non si capisce da dove viene, ma proprio all’origine dell’acqua, alla fonte da dove viene il torrente (ér), eterno simbolo della purità (nel senso Raffaelo-ingresiano, e non nel senso cartesiano-kantiano). E proprio per questa ragione, perché in contrasto all’inondazione (ár), le sue origini (eredet, anche questo un derivativo di ér) sono chiare, il torrente (ér) non solo non corre dappertutto, senza confini, lasciando solo devastazione e distruzione, come l’inondazione (ár), ma anche raggiunge (el-ér-i) la sua meta (raggiungere in ungherese è “ér”). Finalmente, e in modo molto significativo, esprimendo l’unità dell’origine, essenza e meta, c’è la parola “meg-ér-ik” (matura), parola chiave della crescita organica, che si manifesta più chiaramente in un frutto maturo (ér-ett); ecco perché si parla, in ogni lingua, dei frutti maturati attraverso i nostri sforzi.

Da questa radice “ér”, come una scintilla prodotta da tutti questi significati, derivano (ered-nek) una serie di parole chiave. Continuando, come nel caso di “ár”, dopo il “r” con il “t”, arrivando al “ért”, radice comune di parole come “értés” (comprensione), ‘érteni” (capire) e “értelem” (ragione), producendo il perfetto contrappunto, seguendo le regole dell’armonia vocale, le parole “ártás”, “ártani” e “ártalom” (vedi su). Colui che conosce, partendo dalla fonte, dal corso dell’acqua che dà la vita, da dove vengono e dove vanno le cose, le capisce e diventa una persona felice e soddisfatta; ma chiunque non sia capace a questo vive la sua vita come una serie di colpi caduti da sopra, sarà proprio inondato da loro, e senza dubbio cerca dietro tali tribolazioni un’intenzione malvagia, che poi prova a reciprocare, dando così il suo contributo alla disseminazione della malvagità nel mondo. Aut aut, seguendo Kierkegaard; altra possibilità non c’è.

La serie può essere continuata, arrivando dall’ “ért” (comprende) al “érték” (valore), una parola imparagonabile in importanza e generalità, perché tutto quello che aiuta la vita e promuove la bontà di “valore”. Questo valore – e chi lo merita (ér-demes) deve fare particolare attenzione – è proprio l’opposto di una valutazione attraverso il prezzo (ár). Secondo la logica (trickster) dei popoli mercanti solo le cose che hanno un prezzo hanno un valore. La lingua ungherese dice il contrario: se qualcosa ha un prezzo, è quasi certo che non può avere un valore vero! Perché guidato dal “ártás” (fare male) e non dal “értés” (comprendere).

Che tutto questo non è per nulla un caso, suggerisco due esempi ulteriori. Per primo, la parola “árul” (vende) non significa solo un’azione commerciale, ma anche tradimento: “el-árul”, tradisce o veramente vende (qualcuno di vicino o proprio la sua patria); “el” è un prefisso che significa il compimento di un’azione. Per l’altro esempio dobbiamo andare avanti e aggiungere la consonante “z”, invece di “t”, alla radice “ér”. Così si arriva a “érez” (sente). O, a “érték” (valore) non ad „ár” (prezzo) che è vicino, ma, è il contrario di “érzelem” (sentimento). Così si arriva a un’altra coppia di parole: l’opposto del “érez” (sente) è “áraz” (determinazione dei prezzi). Così nell’ungherese – o, meglio, nella lingua della concretezza, del quale l’ungherese è una traccia ed una guardia – le cose sono al loro posto, e la ragione (értelem) e il sentimento (érzelem) non sono contrari, ma vicini stretti, contrari piuttosto a nuocere (ártalom) ed a stabilire prezzi (árazás). Per le lingue che hanno dimenticato l’importanza delle vocali lunghe tutto questo rimane incomprensibile; per loro, ragione (értelem) e danno (ártalom) al limite diventano la stessa parola. Ma a questo punto si chiude la possibilità di comprendere il mondo.

Facciamo ora un passo indietro e aggiungiamo alla radice base “è” la consonante “l”. Il risultato è ancora una coppia di parole: in contrasto al falso (álságos) “ál”, il vivificante (éltető) “él” (vive). E come la base della vita (élet) è il cibo (étel), al quale si arriva attraverso una semplice reversione, o “étek” (cibo), il modo di vivere del malvolente (ártó) falsità (álságosság) è la maledizione (átkozás), o l’imprecazione (átok). Étek-átok; érez-áraz; ért-árt:

così forse cominciamo a capire, attraverso la struttura stessa della lingua ungherese, la corrispondenza fondamentale, la quale organizza la vita umana – decisamente al-di là del razionalismo formale cartesiano-kantiano e le teorie dei sistemi (che peccato che Gregory Bateson non conoscesse l’ungherese).

Ma non abbiamo ancora finito con le parole-radici formate dalla radice-base “è”. Perché, per esempio, c’è “ép” (intatto, integro), uno delle più belle e importanti di tutte le parole. Nelle lingue indoeuropee serve una ricerca sostenuta per approssimare, attraverso diverse parole lunghe, il complesso significato della radice ungherese. La parola più vicina è il latino “sano”, con il significato originale di non ancora forato, o vergine, vicino al “sanctus” e “sanctio”.

L’opposto di intatto (ép) è “áp”, una parola-radice che non esiste più in ungherese, diventando “záp”, solo in derivati come “áporodott” (nell’Ottocento esisteva ancora in alcune regioni della Pannonia, in ungherese “oltre il Danubio”); o qualcosa che è andato male, è diventato puzzolente. Ma se un uomo ha perso la sua sanità, deve essere curato – e l’altra parola ungherese derivato dalla radice “áp” è proprio ápol: curare, guarire, ritornare allo stato sano e di integrità.

Di altre radici fondate sul “è”, solo alcuni esempi, quasi per caso. Il primo è “ész” (mente), quasi naturale dopo gli esempi precedenti, organo della comprensione. Nello stesso tempo – un altro legame chiave riconosciuto nella struttura dell’ungherese – organo del riconoscimento” vedi “észrevesz” (prende nota, ma letteralmente “prende sulla mente”), una parola intraducibile nel suo significato comprensivo, che alla vicinanza dei sentimenti e ragione aggiunge l’unità della percezione, sensazioni e ragione, strappata dal cartesianesimo.

Qui appartiene anche “érdek” (interesse) e “érdem” (merito); ma non nel senso che per l’uomo vale la pena seguire i suoi interessi ‘razionali’, camminando sulla terra e non cacciando idee platoniche; e neanche che solo il seguire di interessi conduce al raggiungimento dei meriti, o il riconoscimento. Ma, perché il fondamento di “érdek” (interesse) e “érd” o “érdes”, significano una superficie non liscia, difficile, ma rauca, ruvida, come per risolvere un problema; generalizzando, un problema, che ha svegliato l’interesse (“érdek-lődés), proprio attraverso la sua ruvidità (“érdes”-ség), e non perché sia collegato ad un interesse materiale. In ungherese il legame è l’opposto come suggerito dalla filosofia utilitaria – o, piuttosto proprio diritto.

O c’è la parola “év” (anno), secondo Czuczor-Fogarasy collegato al “ív” (arco; il legame fra “è” e “í” meriterebbe uno studio approfondito), come un pezzo del cerchio, ispirato dal movimento del sole e dagli altri “égitestek” (corpi celesti) durante l’anno. Si, proprio “égi-testek”, perché “ég” (cielo) di certo è una radice che appartiene qui, e in senso plurale, perché “ég”-bolt (cielo) e “égő” tűz (fuoco bruciante) di certo sono derivati dallo stesso radice – forse proprio attraverso il fulmine che viene dal cielo e che secondo gli archeologi era la principale forma di accensione del fuoco dell’uomo di Neanderthal. I due sensi sono collegati anche attraverso una terza radice, “éj” (notte), perché il cielo (ég) di certo è più bello nella notte (éj), quando si vedono le stelle (égitestek), e anche solo nella notte (éj) si fa bruciare (ég-et) il fuoco.

Suggerisco un altro ipotesi. La radice “éz” non esiste ora, che strano, perché le radici “áz”, “őz” e “űz” sono di importanza chiave; ma forse esisteva (e esiste anche ora in alcuni dialetti con la versione di “íz” gusto), e proprio il significato “édes” (dolce), con legami anche con la parola “méz” (miele).

Chiudo con la parola “én” (io), che mostra e promette una serie di particolarità. La ricorrenza di ‘m-t’ nella prima e seconda persona singolare, al di-là delle famiglie linguistiche è un problema riconosciuto da tanto tempo, e esiste anche in ungherese (vedi mio enyém, tuo tied; a me nekem, a te neked, con lo stesso t-d cambio come in tedesco – vedi tu du). La parola “én” (io) non conforma a questo, ma per la sua interpretazione prima dobbiamo introdurre la radice-base “ő”.

Il senso arcaico delle radici “ő” e “ű” è molto più difficile da scoprire, perché non esprimono un urlo. Per la loro comprensione aiuta se ci mettiamo davanti a uno specchio e proviamo a pronunciare le voci. La pronuncia del “ő” è legato ad un’espressione tonda, piena, calma, generando l’impressione di una certa saggezza e discrezione. Ma alla pronuncia dell’ ű” la nostra faccia diventa distorta, perché la nostra bocca è troppo ristretta, e anche il nostro sopracciglio diventa rugoso; tutta la faccia suggerisce paura.

Le radici arcaiche derivate dal “ő” e “ű” sono costruite proprio su queste due esperienze principali (Ur-Erlebnis). Come nel caso di “á” e “é”, anche qui il “r” è la consonante più importante; perché la parola base della saggezza è l’ “őr”, o la guardia, una delle parole chiave della filosofia platonica. Ma per essere capace di proteggere e conservare o per diventare una guardia (“őr”), qualcuno deve guadagnare molta esperienza, attraverso una lunga vita, un segno del quale sono i capelli bianchi (“ősz”), guadagnati verso l’autunno (“ősz”) della via. Tale esperienze guidano anche verso il passato e gli antenati („ős”-ök), comprendendo (megértve) loro quando qualcuno è diventato maturo (érett), ma anche rivalutandoli (átértékelve). Ma la stessa esperienza arcaica e simbolizzata dall’animale quasi totemica dell’Ungheria arcaica, il daino (“őz”), o il cervo magico.

Ma il più importante garante della saggezza investita nella radice “ő” è forse la parola stessa, come pronome personale. Il pronome “ő” riferisce a qualcuno che non partecipa alla conversazione. Così la sua presenza va al di-là della concretezza fondamentale e questo – in un mondo diretto, che ancora non conosce l’ipocrisia, il cinismo e le allusioni – può essere solo causato dalla sua autorità. Non conosco la risposta ne io (én), ne tu (te), e così serve portare qualcuno lontano nella nostra presenza, o rappresentare con il “ő”: giustificandolo con l’autorità della saggezza. Altrimenti, “ő” = il saggio. Tutto questo è impersonato dalla parola “őszinte” (onesto): “ő-szinte”, o è come “ő”: dritto, affidabile, saggio.

La paura, anche gemito spaventato contenuto nell’ “ű” è espresso meglio in due radici base: “űr” (vuoto) e “űz” (cacciare). Nel primo caso, proprio come nei casi di “á” e “è”, il consonante “r” è aggiunto. Il risultato è la sfida del niente o del non-essere, un’altra parola chiave della filosofia platonica, ma ora nel senso negativo. Le due parole, “űr” e “őr” insieme rappresentano il cuore del pensiero platonico: da un lato, il guardiano è custode della preservazione della conoscenza; dall’altro c’è il non-essere (o piuttosto non c’è nulla), il vuoto, del quale non dovremmo neanche parlare, un tema famosamente cacciato da Parmenide dal pensiero, ma per colpa dei sofisti Platone è stato costretto a rimetterlo nel centro del suo pensiero, perché i sofisti non solo hanno importato il non-essere nella politica e il pensiero, ma – come parte di uno vera rivalutazione dei valori nietzschiano – l’hanno messo al centro della vita di ogni giorno.

Anche l’altra parola-radice con “ű”, l’ “űz” (cacciare), rappresenta la paura, ma dal lato dell’azione, o del verbo. Chi è cacciato o perseguitato dall’esterno, comincia ad avere la stessa paura come quello che incontra il vuoto, o il Nulla. Questa esperienza arcaica nei nostri giorni è segnata dai messaggi della posta elettronica – l’origine etimologica del messaggio, in italiano come ungherese (üzenet) è proprio il missile, o la caccia (űzés).

“Á”, “é”, “ő”, “ű”; “ár”, “ér”, “őr”, űr”; “árt” o “ért”; a questi quattro lunghi vocali e un paio di consonanti si può fondare in un modo sicuro un’intera filosofia; e lo stesso coincide con la filosofia di Platone. Cominciando così si può arrivare molto lontani, perché questo modo di pensiero coincide con la struttura stessa della lingua arcaica.

A questo punto finisco questo breve saggio, che tratta i punti principali del legame tra il concreto ed il generale, attraverso la lingua presupposta arcaica.